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Per gli avvenimenti del
1860 le nostre montagne si riempirono di uomini della più disparata
provenienza ideologica. Erano soldati borbonici anzitutto, sbandati dopo
Gaeta. Si aggiunsero i renitenti alla leva militare, poveri ragazzi dei
monti e di campagna (non si dimentichi che nel reame di Napoli non
esisteva coscrizione obbligatoria), e ad essi si aggiunsero delinquenti
comuni.
"Furono in modo spicciolo chiamati briganti, ma il nome che spetta
storicamente è di partigiani borbonici (B.D. Marrocco, n.d.r.)."
Erano forze irregolari che si battevano contro lunità dItalia, in
difesa di Re Francesco II. In quanto tali erano legittimisti e
animati da fedeltà al trono e allaltare (portavano addosso
labitino della Madonna del Carmine). Loro compito era: assalire le
proprietà dei liberali favorevoli allunità e quasi sempre
anticlericali, disarmare le guardie nazionali, sollevare i paesi al
grido di Viva Francesco II.
La miseria, la mentalità di odio accumulato e di sangue, il pericolo
continuo ed il tradimento indurirono il cuore dei briganti che commisero
anche delitti efferati. Presi con le armi, i sindaci li potevano
provvisoriamente fucilare secondo una curiosa circolare del 1861.
In fatto di efferatezza non erano da meno le truppe piemontesi, tant'é
che il 18 aprile 1863, alla Camera, il deputato liberale Ricciardi
proferì le seguenti gravi parole, che si trovano registrate negli
Atti ufficiali del parlamento N.1193, pag.4643 e seguenti: Ho
udito e odo parlare continuamente dellabolizione della pena di morte,
ma questa è una derisione; prima che si pensi a questo, abolite il
diritto che nelle provincie meridionali capitani e tenenti si arrogano
sulla vita dei cittadini. Potrei a questo proposito raccontarvi orribili
fatti; mi limiterò a qualche esempio. Nel Matese, non lunge da
Piedimonte dAlife, una compagnia di bersaglieri (ho il numero di essa,
il numero del battaglione e il nome del capitano) nel perseguire i
briganti, arrestò cinque carbonari, fra cui due padri di famiglia, li
arrestò, o signori, e un quarto dora dopo li faceva fucilare siccome
briganti. Eppure erano tutti innocenti!
Si organizzavano le bande, piccole di numero, che a volte si univano. Al
loro finanziamento provvedevano coi ricatti verso ricchi borghesi
liberaleggianti, coi contributi segreti di signori borbonici, e colle
sovvenzioni che venivano dal comitato borbonico di Roma, presso il
governo in esilio[1].
Dopo il Settembre del 1866, con la III guerra dindipendenza perduta
militarmente dallItalia ed in seguito alla dichiarazione di Re
Francesco II, secondo cui non avrebbe aiutato gli Austriaci colle forze
irregolari a lui fedeli, perdette la caratteristica che aveva avuto di
idealità politica e di lotta militare diretta contro gli invasori.
La sera del 3 settembre 1861 un tale Giuseppe
Carullo di Piedimonte d'Alife, negoziante e
guardia-nazionale, mentre si recava a Napoli con
alcuni suoi compaesani, venne catturato da un
piccolo drappello di briganti nelle vicinanze di
Alvignano. I compagni di viaggio del Carullo, fra i
quali si trovavano pure ben noti proprietari, furono
derubati di quanto portavano con loro, ma non ebbero
a soffrire offesa di sorta. Pare dunque che la
vittima designata fosse solo il Carullo. Infatti
fino al giorno 9 nulla si seppe della sorte di
questo infelice, quando lo stesso giorno fu
rinvenuto, dai propri fratelli e da altri amici,
cadavere difforme, lungo la sponda del Volturno, a
poca distanza dal punto in cui venne catturato.
Sul Matese anzitutto simpose la banda di Cosimo Giordano di Cerreto,
cavalleggero borbonico, che alla battaglia di Capua fece prodezze.
Divise la banda coi suoi congiunti ed amici Errichièllo e Piluchièllo,
ritenendo sotto il suo comando la parte più numerosa (1861-1866). Per
istigazione di Cosimo Giordano, nel mese di giugno 1862, i capibanda
Giuseppe Pisatori di Piedimonte e Carlo Sartore di Baia Latina
assalirono la diligenza presso Piedimonte, con l'intento di sequestrare
Giuseppe De Marco tesoriere provinciale di Benevento. Cosimo il 25
agosto si aggirava con 8 briganti ai confini di Piedimonte, in contrada
Torrione per catturare Antonio D'Ambrosio di Alife, che rilasciò per 100
ducati. Per tutto settembre 1862 accompagnava dal Matese al Taburno i
briganti cacciati dal circondario di Piedimonte. Talvolta si nascondeva
sul Matese con il capobanda Cassella di Cusano. Don Achille del Giudice
di Piedimonte, per evitare rappresaglie contro il suo gregge, venne in
suo soccorso.
Il Ministero della Guerra - Divisione Giustizia ed
Istituti militari - (G.M. 1863 p. 461), "per la
necessità di rendere più pronta, più esemplare ed
energica l'azione della giustizia" stabilì
l'istituzione di un Tribunale militare di guerra
anche a Piedimonte.
Di Piedimonte erano D'Amico Elisabetta, accusata di favoreggiamento, e
Nicola
Zappa (brigante) arrestato nei pressi di Formia e lì fucilato.
Rimase famoso il rapimento di Nicola Coppola nel 1864 a Piedimonte, fra
il seminario e il suo casino in via Elci. I briganti chiesero un
riscatto di 80.000 ducati, un gran quantitativo di armi, commestibili ed
un cannocchiale. Passarono i giorni in ricerche infruttuose. Matteo
Settembrini, latore di un messaggio ai briganti da parte della famiglia
Coppola, si mise in giro per il Matese. Verso gli ultimi di aprile '64
una donna, a nome dei briganti, gli domandò se aveva portato il primo
acconto di 5.000 ducati. E' la venticinquenne Maria Carmina Valente di
Cusano, moglie di Pasquale Pecoraro, domiciliato a Piedimonte. Nicola
Coppola, dopo aver sborsato 14.000 ducati pari a 60.000 lire italiane,
ritornò in famiglia il 17 maggio successivo; ha contratto una penosa
oftalmia durante i due mesi di prigionia. Dichiara di essere stato
portato attraverso il Matese sulla montagna di Macchiagodena nel
circondario di Isernia, per ordine dei capibanda Cosimo Giordano di
Cerreto e Libero Albanese di Guardiaregia. I briganti portavano grandi
anelli d'oro alle dita e sul petto monete bucate a guisa di eroi. Ha
riconosciuto tra loro Giuseppe Campagna detto il Busso di Piedimonte,
Civitillo senza paura di Cusano, domiciliato a Piedimonte, Francesco
Amato di Pietraroia, Domenico Valente di Cusano e con sua somma
meraviglia Gerardo Autunnale di Potenza nonché Vincenzo Gallozzi di
Avezzano del 40° fanteria di stanza a S. Potito Sannitico. Hanno forse
questi due disertato? Gli rispondono di sì.
Come disertore era Pisani Francesco, fu Vincenzo,
d'anni 25, da Stilo (Reggio), soldato nel 39°
reggimento Fanteria, condannato alla pena di 15 anni
di lavori forzati «per avere senza licenza
abbandonato il proprio corpo stanziato in Gioia il
dì 8 luglio 1862, per cui venne denunciato disertore
il dì 9 successivo, rimanendo illegalmente assente
fino al 26 di settembre 1863, giorno in cui
costituivasi al distaccamento dei Reali Carabinieri
in Piedimonte».
Il 26 agosto del '64 a Selvapiana, a 10 Km. circa da Cusano, sono ritrovati i
corpi di Pasquale Prece carbonaio di 45 anni e Domenico Ruscetti,
bracciante di 52 anni di Piedimonte d'Alife. I due, incaricati dalla
famiglia di don Nicola Coppola di portare ai briganti i 14.000 ducati di
riscatto, avevano trattenuto per sè una parte della somma. Il cadavere
del Ruscetti è orribilmente mutilato: naso ed orecchie recise, occhi
cavati, budella al di fuori. Su di lui, spicca un cartello "Ecco la fine
che fanno le spie". L'omicidio porta la firma di Cosimo Giordano. Quest'ultimo,
audace
e intelligente, si travestiva, andava e tornava da Roma, poi riparò a
Marsiglia, ricomparve nell80, nell82 fu ipocritamente catturato.
Condannato allergastolo, morì nell87.
Con lui, ed anche in sua
assenza, signoreggiarono il Matese le bande di D. Fuoco, L. Albanese,
Pace, F. Guerra, Santaniello[2], distrutta nel Maggio 68, Cecchino di
Rocca Mandolfi, <<Padre Santo>>, L. Di Lello, DAgostino,
Martino. Mai ferme, a volte venivano avvistate sul massiccio, ma
rapidamente si spostavano altrove. Ultima a scomparire fu la banda di
Fuoco, ridotta a tre uomini e distrutta il 16 Agosto 1870.
In qualche momento sul Matese raggiunsero anche 500 uomini, in generale
erano di poche decine. Per fronteggiarli, il gen. Pallavicini aveva un
comando a Capua, dipendente dal 6° Dipartimento militare di Napoli.
Intorno al Matese, oltre alle tenenze dei Carabinieri di Isernia,
Piedimonte e Cerreto, stavano schierati il
39° e il 40° Fanteria, almeno nei periodi più pericolosi. Come
se non bastasse, ogni comune aveva la sua compagnia di Guardie nazionali
(a Piedimonte un battaglione di circa 600 uomini!).
I fatti realmente avvenuti divennero presto trasfigurati e leggendari.
I briganti esigevano la
taglia: erano capaci di seviziare il catturato, se non arrivava il
denaro. Simmagini la disperazione delle famiglie, impedite dai
Carabinieri a mandare denaro, e costrette dalle intimidazioni dei
banditi. Ci fu chi si rovinò completamente, per trovare denaro subito,
ipotecando ogni cosa. Logicamente solo parte del denaro arrivava agli
interessati. Molto restava nelle tasche degli intermediari o
manutèngoli.
Tolta questa parte vergognosa, colpiva limmaginazione il fascino
dellavventura pericolosa, e anche sanguinaria: si viveva in grotte,
si facevano segnali sugli alberi (es. la Serra del favo scritto sulle
montagne di San Potito), si camminava con due tacchi sulla neve per far
perdere la direzione e i ragazzi in paese imitavano tutto col gioco
Briganti e soldati; si usava un frasario figurato.
Sapevano di ogni
movimento della polizia che però aveva anchessa il controspionaggio.
A San Potito è tuttora raccontato il rapimento del sindaco Simeone
Pietrosimone, e luccisione del ricco terriero Enrico Santillo per
errore, e del comandante della guardia nazionale Franco dOrsi, la
notte del 22 Luglio 1865, il primo ucciso con undici pugnalate in
montagna, gli altri sparati. Stavano assai attenti ai veleni nel cibo.
Il ragazzo Vincenzo Ricigliano di Gioia, rapito e riscattato dietro
grossa somma e un pranzo a monte Cesa del Monaco o Valle del
Londro (in comune di San Potito), per la delazione fatta dal manutengolo
disse che il pranzo era avvelenato -, fu fucilato immediatamente sul
posto.
Il feroce scontro notturno a Valle Cusanara, nel fondovalle, ha lasciato
il nome alla rupe sovrastante Piscu rì briganti: cinque
partigiani e due guardie nazionali, uccisi il 18 marzo 1863.
Nel mese di giugno del 1865 la banda Fuoco, forte di
40 briganti, si accampa nel Matese, tra le montagne
poste tra San Gregorio e Piedimonte d'Alife. Fuoco,
il giorno 15, inviò per mezzo di un pastore locale
un ordine di taglia di 4.000 ducati al sindaco di
Piedimonte, Achille Del Giudice.
Non mancò la nota amorosa. Almeno i capi avevano unamante. Di
Giocondina amante di Fuoco sinnamorò un giovanotto della banda, Vagabondo,
di Roccamandolfi, bel ragazzo, dalla bella voce, ma soprattutto abile a
tirare di schioppo; il capo lo allontanò. Rimasto solo, sulle fiancate
settentrionali del monte Miletto, fu ferito a tradimento da.......un
amico dinfanzia, e poi fucilato nel suo paese. La coraggiosa truppa
piemontese non esitò a fucilare un ragazzo tredicenne, rifugiatosi nel cimitero di
quel paese, perché reo di possedere una rivoltella. La popolazione
disarmata e terrorizzata dalla truppa settentrionale, simpatizzava coi
banditi dalla società, e portava ad essi perfino da mangiare di
nascosto.
Così nel 1864 D'Onofrio Giuseppe fu Pasquale, di anni 51,
nato e
domiciliato a Sepicciano di
Piedimonte d'Alife,
bracciante, veniva
condannato a sette anni di reclusione «
per avere il 23 aprile 1864, scientemente e di
libera volontà somministrati viveri ai briganti che
s'annidavano sulle catene dei monti del Matese....mentre
con un giumento ne faceva il trasporto ed erano
destinati alla banda dei briganti capitanata da
Libero Albanese la quale andava scorrendo le
campagne e le pubbliche vie di
Piedimonte d'Alife
per commettere crimini e delitti».
(Matteo
Bertone, Astrea - Rivista di legislazione e
giurisprudenza militare, Tip. Arnaldi, Torino
1863-64)
Dalla Gazzetta di Mantova del 1865 si legge che "in
Piedimonte d Alife vennero arrestati nel loro
proprio domicilio Tommaso Carlone e la sua
fìgliastra Elisabetta d'Amico; il primo per
manifesta connivenza con i briganti, la seconda per
essere in amorosa relazione con Pietro Campagna,
fratello del notissimo brigante Giuseppe, del quale
furono rinvenute ed assicurate due lettere. Questo
servigio fu eseguito dal luogotenente della Guardia
nazionale di quella città, sig. Filippo d'Agnese".
Di
San Gregorio fu Maddalena de Lellis, amante del capo brigante
Santaniello, che abbandonò la famiglia per seguirlo. In combattimento
fra Tina (Latina) e SantAngelo, fu ferita allinguine. I
Carabinieri la raggiunsero seguendo la traccia di sangue sulla neve. A
Venezia, nelle carceri fu convertita dal patriarca Sarto (poi Pio X) che
landava a confessare. Morì a San Gregorio nel 1908.
Tristissimo momento per Piedimonte furono le fucilazioni al Vallone
(piazza Cavallerizza), eseguite da uno squadrone di soldati, quasi
sempre al pomeriggio. I condannati venivano confortati dal vescovo Di
Giacomo e dai canonici Paterno e Prota. Erano legati e banditi, e i
sacerdoti si scostavano recitando le invocazioni alla Madonna. Il
segnale era Refugium peccatorum. Allora si sparava. In quei
pomeriggi di sangue, mentre la folla dei bighelloni senzanima andava
a vedere, tutti i buoni si inginocchiavano nelle case a pregare, e
quando si udiva la scarica di fucileria, Piedimonte si agitava e
piangeva.
Dal registro di stato civile di Piedimonte risultano fucilati alla
Cavallerizza: 17 Settembre 1861 ore 23, Nicola Giusto di Faicchio di
anni 27, e Giuseppe Del Vecchio di Gioia, diciannovenne; il 15 Settembre
1862 Giovanni dAntonio, 53 anni, di Palermo; il 22 Ottobre 1862 Nicola
Cassella di Gioia, 21 anni; il 3
Dicembre 1862 Cosimo Tino, 21 anni, di Piedimonte; il 25 Aprile 1863
Clemente Ricigliano di San Potito, 21 anni; l8 Dicembre 1863 Liberato
Di Lello di Gioia, 32 anni; l8 Gennaio 1864 Antonio di Meo di Castello,
24 anni.
Ma molti furono gli uccisi in combattimento, e fra essi: il 16 Aprile
1861 Alessandro Tortorelli, di Piedimonte, anni 39, in località Favo; il
5 Maggio 1862 Francesco Cassella, di Cusano, di anni 20, a monte Stufo;
il 25 Settembre
del 1862 Raffaele di Jorio di Piedimonte, 62 anni, a monte Cila; già
sè accennato ai vari caduti nello scontro notturno a Valle Cusanara,
il 18 Marzo 1863; il 15 Maggio 1868 alle Serretelle dietro Cila, Cesare
Ripa di Piedimonte, 31 anni, il quale fu decapitato: la testa
fu incastrata su una pertica appuntita, portata a Piedimonte, ed esposta
sotto il municipio. Nè si devono dimenticare altre morti in carcere a
Piedimonte, o per ferite in combattimento, oppure......per morte
improvvisa.
Ricordiamo: il 1° Novembre 1865 Giovanni Civitillo senza
paura, così lo chiamavano, di Cusano, domiciliato a Piedimonte
Sepicciano, di anni 24; l8 Gennaio 1868 Luigi Bernardo di Castello,
22 anni; il 6 Febbraio 1868 Giovanni Antonio Ferrucci di Alife, anni 19;
il 31 Marzo 1868 Giovanni Zappoli di Castello, ventenne, (tre morti in
carcere in due mesi....); il 25 Novembre 1868 Pasquale Napolitano di
Cervinara, anni 29.
La bibliografia sul brigantaggio e vastissima. Anzitutto gli archivi
dellarma dei Carabinieri a Roma, e gli archivi di Stato di Caserta,
Benevento, Campobasso e Isernia, tutti logicamente
antibriganteschi. Opera generale è la Storia del Brigantaggio
di Franco Molfese (Milano 1968). Respingendo le interpretazioni
antropologiche e sociologiche di De Blasio e Berlingieri, in generale si
parte dal presupposto ideologico, o nazionale unitario (e il giudizio è
negativo), o legittimista borbonico (De Sivo, Borjés, de Poli, Sauclière,
Ulloa......), (e il giudizio diviene positivo e idealizzato dalla
religiosità, dalla fedeltà, dallestremo sforzo del Sud contro il
Nord invasore). Documentato ma unilateralmente, è Achille del Giudice: Documenti
testificanti lopera del sig. Achille Del Giudice contro il
Brigantaggio (Napoli 1868) in cui dimostra che armava la Polizia e
pagava spie, ma logicamente tace la connivenza di cui fu in seguito
accusato.
Per il Matese sono utili anche V. Berlingieri: Brigantaggio in
Roccamandolfi (....1889) molte notizie ma guastate
dallopportunismo; e A. De Blasio: Brigantaggio tramontato,
inevitabilmente polemico in quanto era figlio di uno ucciso dai
briganti; L. Sangiuolo: Il Brigantaggio nella provincia di Benevento
(Benevento 1975); molto documentati e specifici per il Medio Volturno ed
il Matese sono R. Di Lello: Alcuni aspetti del Brigantaggio
postunitario nei terrritori di Cusano e Pietraroia, su Annuario 1975
dellASMV e G.R. Palumbo: Cronologia del Brigantaggio sul Matese,
su Annuario 1977 dellASMV.
[1]Del governo in esilio fece parte anche un figlio del Matese, il
barone Salvatore Carbonelli di Letino, a Gaeta dal Novembre 1860 come
Ministro delle Finanze e a Roma dal Febbraio 1861 come Ministro
degli Affari Ecclesiastici.
[2]Santaniello morì il 9 maggio del 1868, a
cinque anni dall'approvazione della legge Pica con
la quale 120.000 soldati dell'esercito regolare
italiano furono impiegati per debellare ed
annientare con metodi durissimi, il fenomeno del
brigantaggio postunitario del mezzogiorno. Ad
uccidere Santaniello furono i soldati Domenico
Antonio Fiore e Michele Giordano da Serino, ebbero
per aver ucciso il brigante: 255 lire.
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