Aurora Sanseverino mecenate: suo contributo allo sviluppo

dell’Opera in Scuola Napoletana

di Pietro ANDRISANI

 

Estratto da: Fardella 1704 – 2004. Tracce di storia

Atti della Giornata di Studio / Fardella 6 Agosto 2004

a cura di Antonio Appella e Antonietta Latronico

Associazione Culturale ONLUS “La Scaletta

 

 

Due Principesse lucane protettrici della musica.

 

Tra il 1680 ed il 1730 il mecenatismo di due principesse, di origine lucana, ha dato un valido contributo all’evoluzione del dramma in musica di scuola napoletana: in ordine di tempo, la prima è stata Eleonora de Cardenas, moglie di Domenico Carafa, principe di Colobraro[1]; l’altra Aurora Sanseverino, figlia di Carlo Maria, principe di Bisignano e di Anna Maria Fardella. Eleonora, unitamente ai cugini Carafa della Stadera, duchi di Maddaloni, si rese partecipe del trasferimento del Maestro Alessandro Scarlatti da Roma a Napoli[2]. Questa operazione portava alla Scuola musicale partenopea nuova linfa e vigore, le faceva assumere una fisionomia più determinata, superare i confini di un certo provincialismo e la inseriva nel movimento musicale di interesse universale[3].

Aurora, dopo il suo matrimonio con Nicolò Gaetani dell’Aquila d’Aragona, fa della sua casa di Napoli e del palazzo ducale di Piedimonte d’Alife, cenacoli di letterati, poeti, pittori, architetti, scenografi, musici e musicisti. Qui si veniva a creare un giovèvole clima di mutuo soccorso artistico dove ognuno arricchiva, agevolmente, il suo bagaglio culturale offrendo il proprio contributo all’allestimento di drammi e feste musicali nei due teatri domestici padronali e, all’occorrenza, in quelli della capitale: il San Giovanni dei Fiorentini ed il Nuovo a Montecalvario.

Non fu un caso se la de Cardenas fino al 1691, anno della sua immatura morte, tenne a battesimo i figli dei coniugi Alessandro Scarlatti e Antonia Anzalone nati a Napoli, dando il nome di Domenico al primo, in onore di suo marito, principe di Colobraro, e quello suo, cioè di Eleonora, alla prima femmina.

La musica napoletana allora, come se avesse voluto stabilire il vincolo del comparatico di San Giovanni fra le due Principesse lucane, dispose che l’altro figlio della coppia Scarlatti-Anzalone nato nel ’92, fosse tenuto al fonte battesimale dalla Sanseverino[4].

 

 

 

 

Saponara

 

Donna Aurora nacque nella opulenta città di Saponara il 28 aprile del 1669, ove ebbe i primi rudimenti di letteratura e di educazione musicale dai suoi istitutori e dai propri genitori. Uno scorcio di quella Saponara ce lo presenta un protetto del Principe Carlo Maria, l’Abate Bonifacio Petrone, detto Pecorone[5], musico della Real Cappella di Napoli e di quella del Tesoro di San Gennaro: il Petrone anche lui nato in quella ricca città (2 aprile del 1679), pubblica queste note nel 1729.

La Saponara trae la sua denominazione dall’Altare di Sapon Idolo de’ Gentili, che quivi era, onde Ara Sapon appellavasi, e che era un Castello, o sia Fortezza dell’antica Grumento disfatta da Annibale, e poi desolata in tutto da’ Saraceni, e per cui ne fu tolta la sede Vescovile, e poscia collocata, o incorporata a quella di Marsico Nuovo.

Nella Saponara poi moderna evvi il Palaggio Magnifico, e quasi Reale del Felicissimo Signor Principe di Bisignano Padrone, rifatto dalla felice memoria del Principe Carlo, avo dell’odierno Principe Luigi della gloriosa stirpe Sanseverini: imperocchè in esso sono appartamenti superbi, e con singolar simetria, ed architettura composti, e ripartiti; evvi l’appartamento appellato del Principe (Carlo Maria), evvi quello della Principessa (Anna Maria Fardella), il terzo di D. Aurora, il quarto di D. Lilla, oltre il gran comodo della servitù alta, e bassa. Tutto interamente poi è magnificamente, e nobilmente mobiliato, ed a maraviglia ornato, che puossi dalla stalla sola, e dalla scuderia argomentar il resto: imperocchè in essa è luogo di 122 cavalli, e le mangiatoie ornate di 122 specchi di Venezia con cornici dorate riccamente, e tutto il rimanente a proporzione superbamente disposto: ed a capo della medesima stalla è collocata una statua di marmo di rara bellezza, ritrovata tra le ruine di Grumento, e che dicono di dea di Gentili di quei tempi[6]”.

 

 

 

Residenza napoletana dei Sanseverino di Bisignano… e qualche ciancia.

 

La residenza napoletana della famiglia dei Principe Sanseverino-Fardella allora era nel quartiere di Chiaia, a capo dell’odierna via Bisignano[7] e ad equa distanza tra la lo spasso di Posillipo e lo struscio di via Toledo. Giuseppe di Blasiis, in Frammento d’un Diario […] del gennaio 1673 racconta come da questo palazzo Donna Maria Fardella, Principessa Bisignano [,] esce per Napoli in sedia attorniata da otto paggi e Cavallerizzo a cavallo, una Carrozza apresso con quattro cavalli per le Damigelle e due altre per gli gentil’huomini suoi Corteggiani a due cavalli l’una e più staffieri avanti la sedia.

Il palazzo costruito dal principe Pietro Antonio verso la metà del ‘500, con pietre di piperno, pietre dolci e marmi pregiati era riccamente arredato da mobili, quadri, sete, collezioni di gioie; da un lato confinava con un giardino con molte piante esotiche, dall’altro da un recintato e locali che ospitavano animali feroci addomesticati.

Un diarista riferisce che “Il Principe [Tiberio Carafa, principe di Bisignano] nudriva in questa casa [del rione Chiaia] molti leoni, ed ebbe la fortuna di vederli propagati, cosa non ancora succeduta nell’Italia; ne aveva tra questi uno cicorato, di tanta mansuetudine, che dormiva nella stessa camera dove il principe dormiva; andava col principe in barca ed in carrozza…” Lasciato dal principe in un’osteria, durante un viaggio, il leone si buttò dalla finestra, “ma perché l’oste l’aveva legato per la gola in un traverso di detta finestra, restando sospeso morì. Il principe di Bisignano – continua il diarista – nel parco attiguo il palazzo aveva creato un giardino zoologico, e spesso si dilettava ad organizzare degli spettacoli un po’ stravaganti, fra cui la lotta del cavallo con la tigre”[8].

I coniugi Carlo Maria Sanseverino e Anna Maria Fardella ebbero pieni poteri del palazzo dopo la morte del vecchio zio Carlo[9] avvenuta il 18 agosto del 1670. L’anno prima, lo zio Carlo, a sua volta, era succeduto al proprio fratello Luigi[10], morto anche lui molto vecchio. Il nuovo Principe di Bisignano “esercitò lo stile de’ suoi antenati di non far camerata con nullo cavaliere e porta li suoi staffieri avanti la carrozza”. I principi di Bisignano Carlo Maria e Donna Anna Maria Fardella formavano una di quelle coppie soccorrevoli, generose, prodigali ma che in certe situazioni non si fanno passare la mosca sotto il naso, sapeva come togliersi la classica pietruzza dalla scarpuzza.

Accadde che nel giugno del 1702 si celebrarono le nozze del rampollo Giuseppe Leopoldo con la giovanissima[11] figlia di Nicola e Giovana Pignatelli dei duchi di Monteleone, potente famiglia spagnola che si vantò di aver donato alla sposa 100.000 ducati, dote d’un valore superiore a quella portata dalla famiglia del fresco genero. Quei Pignatelli facevano parte dell’ultimo nucleo di Spagnoli vanagloriosi operanti a Napoli che ostentavano il peso della propria grandigia sui loro omologhi napoletani. Questa superbia infastidì i loro novelli consuoceri[12]. Antonio Bulifon da quel ficcanaso che era così sintetizzò l’increscioso accaduto sul suo avviso del 25 ottobre 1702: “Ma dopo che fu accasato il giovine con la signorina spagnuola, il Principe di Bisignano padre e la Signora sua moglie non visitarono più la Signora Duchessa di Monteleone, madre della sposa, per differenze che questa, per la sua grandezza, non rendeva le visite”. Nel 1705 la guerra fredda tra le due autorevoli casate dovette avere un lieve sussulto quando nel proprio palazzo di Chiaia i Sanseverino-Fardella vollero festeggiare la nascita del nipotino, figlio della giovane coppia Sanseverino-Pignatelli, con un sontuoso cerimoniale da fare invidia agli stessi re. Il principino venne battezzato nientemeno dal “De la Trémoille, in nome del re di Francia, come da procura fattagli e, davanti al Palazzo del Principe a Chiaia furono squatronati tutti li soldati francesi con salva del loro moschetto[13]. I Principi Sanseverino di Bisignano non erano nuovi a puntigliosi avvenimenti di tal sorta. A solo titolo di curiosità citiamo un emblematico episodio, analogo al su esposto, accaduto settant’anni prima a Donna Margherita d’Aragona Principessa di Bisignano, madre di Carlo Sanseverino. Il 17 agosto del 1629 facevano solenne ingresso a Napoli Fernando Alfàn de Ribera, duca d’Alcalà, nuovo vicerè e consorte. Dopo le ordinarie cerimonie, tornei, cavalcate, la vice regina ricevette l’omaggio di un gruppo di dame blasonate della città. Fra queste ultime vi era Donna Margherita alla quale, la boriosa duchessa d’Alcalà, imprudentemente, non seppe o non le volle restituire il titolo di eccellenza, innescando la miccia ad un bizzarro caso diplomatico; il solito Bulifon così ce lo racconta: “A dì 1[17] d’agosto essendo andate a Posillipo molte dame per visitare la signora viceregina duchessa d’Alcalà, e fra l’altre D. Margherita d’Aragona principessa di Bisignano moglie del Principe Luigi Sanseverino, diede questa alla viceregina il titolo di eccellentissima, ma risposele ella con quello di Vostra Signoria; se ne offese gravemente la principessa protestando che restituito le fosse, per lo che, tornando a parlare con la detta viceregina, fra il discorso trovò occasione di vendicarsi, e, datole il Vostra Signoria, si partì alquanto corucciata”.

Dopo questa colorita digressione ci riconduciamo ai principi Carlo Sanseverino e Maria Fardella, i quali, per detta di Costantino Gatti, storico sincrono, avevano nella loro casa i più “insigni maestri nel canto e nel suono”; il principe “dilettossi grandemente della musica, in cui non era inferiore ai più provetti[14]”. Quando nella prole della loro servitù notavano giovani talenti incoraggiavano loro a coltivare le proprie attitudini.

 

 

Un protetto del Principe Carlo: Bonifacio Pecorone.

 

Nel 1693, don Carlo Maria, dopo aver considerato la manifesta vocazione per la musica nel quattordicenne chierichetto Bonifacio Petrone, figlio del suo vassallo Francesco e di Porzia Petitto, lo fece accompagnare a Napoli e l’ospitò nella propria casa del quartiere Chiaia. Dopo sei mesi di ambientazione nella grande città, lo iscrisse al conservatorio di Sant’Onofrio a Porta Capuana ove il Consigliere Delegato era Amato Danio, anche lui di Saponara. In questo istituto il Petrone vi rimase otto anni ed ebbe a maestro di canto figurato il siciliano don Cataldo Amodeo[15]. Di tanto in tanto, il principe vigilava i progressi del suo protetto ascoltandolo cantare ed impartendogli edificanti consigli.

Nel 1702 il giovane cantante, unitamente ad altri professori di musica, segue il principe Carlo nei suoi feudi calabro-lucani. Qui il Sanseverino, due volte la settimana invitava i suoi vassalli ai concerti nei quali Bonifacio eseguiva dilettevoli cantate. In particolar modo il principe gradiva una in lingua napoletana dal titolo A buje parlo, a buje dico[16] posta in musica dal canonico, don Carlo Ferro[17] di Saponara. Per il principe questa cantata “sembrava la più propria per ogni stato, sì che ad ognuno giovasse di diletto, ed anche d’insegnamento”.

L’Abate Pecorone, con la sua seria professione di cantante seppe onorare ampiamente la munificenza elargitagli dalla famiglia Sanseverino-Fardella. Egli si distinse, come basso, nella Cappella Reale ed in quella del Tesoro di San Gennaro; cantò da protagonista in ragguardevoli drammi sacri per musica rappresentati nel conservatorio della Pietà dei Turchini e dedicati ai vicerè e alle viceregine di turno. Ricordiamo La Santa Maria Siriaca, Il Trionfo della castità di Sant’Alessio (1713), Santa Elisabetta d’Ungheria (1716), Il Martirio di Santa Caterina Vergine d’Alessandria (1714) nella quale l’Abate Pecorone impersonò la parte dell’Imperatore indossando “un vestito ricamato, cioè corazza, girella, manto, corona di lauro, stivaletti e coturni di gioie […], una giamberga nuova di Sames di oro, gallonata d’argento con giamberghino finto e calzone differente, con cappello e pennacchiera”. Nel 1729 Bonifacio Pecorone pubblica le sue Memorie con una sonante dedica all’abate Gianfrancesco Sanseverino, Principe di Bisignano, figlio del suo mecenate Carlo Maria. A sua volta D. Bonifacio, coi suoi stenti, fece educare, a Napoli, i suoi nipoti. Il primo dei maschi, Giovanni fu professore di medicina, il secondo si applicò in Speziaria di Medicina ed esercitò la sua professione nel convento dei Camaldolesi, il terzo fu prete secolare. Altri operarono nei palazzi dei principi Giuseppe Leopoldo e Luigi Sanseverino di Bisignano. Nelle sue Memorie Don Bonifacio scrive che Aurora Sanseverino, “Dama di quella grandezza di animo, e di quella gran virtù ornata, per cui quasi a tutto il mondo è nota”, tenne a battesimo la figliola di suo fratello Antonio “e che volle distinguerla altresì col suo proprio nome di Aurora; onde […] commesse di farla condurre dalla Saponara a Casa sua di Napoli, ed appresso di se, che prontamente eseguj: sicchè a capo di tempo collocolla in Piedimonte d’Alife col Signor Mattia Meola persona molto comoda. Gli stessi uffizj avendo io porti all’Eccellentissimo Signor D. Giuseppe Leopoldo Principe di Bisignano di beata, e felicissima memoria, e colla solita generosa pietà Sanseverini colloconne un’altra col Signor Notar Domenico Spera di Santo Fele […]”. Dopo qualche curioso aneddoto e spunto per la storia di casa Sanseverino di Bisignano torniamo a Donna Aurora.

 

 

 

I matrimoni e alcuni biografi di D. Aurora.

 

Ai primi di gennaio del 1682, ancora tredicenne, essa sposa Girolamo Acquaviva, conte di Conversano il quale la notte seguente il giorno del matrimonio sembra termini i suoi giorni terreni; ciò avvenne nel castello di Amendolara, feudo calabro dei Sanseverino.

Due anni dopo Donna Aurora entra a far parte dell’Arcadia di Roma ove ebbe a maestro il canonico Giovan Mario Crescimbeni, padre della medesima Accademia. In seguito diventa Lucinda Coritesia nella Accademia degli Spensierati di Rossano, capeggiata da Giacinto Gimma, uno dei suoi più attenti biografi. In questa Accademia Donna Aurora ebbe compagni e maestri uomini di elevatissima cultura quali Baldassarre Pisani[18] e Andrea Perrucci Fardella[19], censore promotoriale degli stessi Spensierati.

Il Gimma nei suoi Elogi accademici degli Spensierati di Rossano osserva che D. Aurora Sanseverino “[…] fa risplendere l’inclinazione grande alla Musica, ed alla Poesia e amendue […] riconoscendo per maestra la Natura; imperocchè l’una dell’armonia della voce, e del suono; l’altra del concento delle parole dipende”. E, riferendosi ad un ritratto dipinto da un pittore, forse nativo di Saponara e vassallo del principe Carlo, aggiunge: “quell’Aurora dipinta dall’abate Giovanni Ferro in sembianza di bellissima donzella, […] sparge il Mondo di fiori, di luce e di allegrezza, col motto “Sgombra da noi le tenebre, e gli orrori”. Nello stesso libro Andrea Perrucci Fardella termina un felicissimo sonetto in lode di D. Aurora con la seguente terzina:

Quindi, s’è Nobil, Bella, e Maestosa,

Solo al Mondo ammirabil la rende

L’aver Grand Alma, ed esser Virtuosa.

Da Le Vite de’ Pittori di Bernardo de Dominici (IV vol. pg 431) sappiamo che Francesco Solimena, intorno al 1720, per omaggio al di lei nome e per dare un saggio della stima ch’ei faceva di sua virtuosa persona poiché molto pregiavasi della buona amicizia di quella gran dama, che era l’oggetto di tutti gli uomini scienzati, e dell’amore del pubblico dipinse un un quadro che intitolò l’Aurora.

Giuseppe Antonio Avitrano, Virtuoso di Camera di Casa Reale, denominò Aurora la prima delle dodici Sonate a 4 opera III (1713) che dedicò a Marzio Pacecco Carafa duca di Maddaloni[20].

Nella primavera del 1686[21] Donna Aurora impalma Nicolo Gaetani dell’Aquila d’Aragona, uomo d’arme, di profonda erudizione umanistica e, come alcuni studiosi blasonati napoletani di quella Napoli, interessato a lavori di latomie.

In occasione di queste nozze, il principe Carlo, padre di lei, musicista dilettante, nel senso che coltivava quest’arte per diletto, e, come gia sopra accennato, “Aveva […] presso di se […] maestri insigni nel canto e nel suono”, compone, L’Elidoro[22], dramma per musica del quale ci e rimasto solo il ricordo. Invece troviamo tangibile testimonianza dell’evento in un ben elaborato lavoro poetico del Priore carmelitano Carlo Sernicola. Il fulcro centrale del volume comprende cinquanta sonetti: venticinque dedicati alla sposa, gli altri al consorte. Il titolo: Ossequi poetici al merito impareggiabile degli eccellentissimi sposi, Donna Aurora Sanseverino dei Principi di Bisognano e Don Nicolo Gaetani d’Aragona dei Duchi di Laurenzana.

Domenico Confuorto, nel suo giornale del 19 maggio annunzia che Sono venuti in Napoli da Piedimonte d’Alife il sig D. Nicola Gaetani figlio primogenito del Duca di Laurenzana (…) e la bellissima, gentile e briosa Sig.ra Aurora Sanseverino, figlia del Sig.r Principe di Bisignano e vedova del Sig.r D. Geronimo Acquaviva Conte di Conversano, ivi venuti da Calabria, ove si erano sposati nella terra di Saponara et abitano nella Casa delli SS.ri Gaetani a Port’Alba. Per un anno circa gli sposi Gaetani-Sanseverino furono ospiti del duca di Laurenzana padre; in seguito si trasferirono nel proprio palazzo alla Riviera di Chiaia, sito poco distante dalla monumentale casa del Principe di Bisignano. In questa corte oltre che nel palazzo ducale di Piedimonte, donna Aurora, con rinnovato entusiasmo, riprese la cara quanto proficua conversazione con le Muse.

 

 

Un invito a rivisitare la poesia e l’arte di casa Gaetani-Sanseverino.

 

Con meritoria azione di munifici mecenati i freschi sposi, nelle due dimore, ospitarono artisti, letterati e musicisti che hanno lasciato in musei, archivi, biblioteche pubbliche e private opere di elevato valore documentario ed artistico, alcune delle quali sono gia state oggetto di studio, altre attendono la diligente rivisitazione dello storico.

A tale proposito desidero citare due lussuose pubblicazioni di largo respiro e di generale interesse culturale e artistico: La Gerusalemme liberata del Tasso, riveduta di in dialetto napoletano da Gabriele Fasano[23] e il monumentale trattato in tre volumi dal titolo: Le Vite di Pittori Scultori e Architetti Napoletani composto da Bernardo di Domenico[24], detto anche il Vasari partenopeo.

Il titolo esatto della prima e Lo Tasso Napolitano zoè la Gierosalemme libberata de lo sio Torquato Tasso votato a lengua nosta da Gabriele Fasano de ‘sta cetate […] dedecata a la llostrissima segnora, la segnora D. Aurora Sanseverino, dochessa di Laurenzano.

La dedica (con data: Oje li 14 de lo mese stroppejato dell’Anno 1706) e dell’editore Michele Luigi Muzio. Il volume e corredato da un angiporta raffiguranti il Sebeto[25], le sirene, i delfini, il Parnaso napoletano[26]. Ad ogni capilettera e premessa una tavola che ripropone significative allegorie e illustrazioni del castello di Piedimonte. I disegni, in massima parte, sono opera di Giacomo del Po[27], artista gentiluomo di casa Gaetani-Sanseverino.

Bernardo de Dominici (Le Vite de’ Pittori, Napoli, ed. 1840, vol. III, p. 365) parlando delle residenze dei coniugi Gaetani-Sanseverino ci informa di case riccamente affrescate e dotate di quadri dipinti da celebri pittori, alcuni dei quali erano o erano stati ospiti di quei principi. Inoltre ci informa che, nei convegni magnifici, D. Nicolo e D. Aurora ponevano nel mezzo della gran tavola per recar meraviglia, e diletto ai convitati una concettosa saliera d’argento alta più di cinque palmi, disegnata da Luca Giordano e realizzata da Gian Domenico Vinacci. Nel basso avea figurato le quattro parti del mondo, con i loro maggiori fiumi, o vogliam dire i piu rinomati; piu sopra similmente in giro eran situate le quattro Ore del giorno, coi loro significati, fra’ quali bellissima e la figura della Notte, con l’immagine del Sonno; sopra vedesi il Tempo, figurato in Saturno, che con la falce cercava distruggere le belle opre terrene, ma veniva impedito, o placato dalla Gloria, e dall’Immortalita, che additagli un Tempio lucido dell’Eternita, situato alla cima della Saliera; alla qual veduta placato Saturno si fermava. Oltre che recar meraviglia, e diletto ai convitati la scultura doveva rappresentare un eloquente cartello di intenti in chiave di aperta simbologia gareggiante con le scenografie del melodramma eroico del tempo affollate di allegoriche gemmate dalla esuberante mitologia ellenica; ma soprattutto la preziosa scultura doveva riprodurre una sorta di ara laica, un virtuale contenitore dal quale si poteva attingere il sale della terra.

Il nucleo di eruditi gentiluomini che ornava i cenacoli di quella munifica casa, alcuni dei quali erano interessati in particolar modo alle scienze matematiche e all’astronomia, nella vita comune d’ogni giorno esercitava la professione di giudice, di avvocato, di notaio; la categoria dei pittori, scultori, architetti, cantanti, musici vi esercitava la propria professione ma, all’occorrenza, col permesso di donna Aurora, esprimeva il proprio ingegno presso altre insigne famiglie del patriziato napoletano ed estero.

Aurora Sanseverino e Nicola Gaetani tennero nelle proprie dimore imponenti cenacoli letterari e ludici ma, spesso, furono presenti nella vita mondana della città e dei suoi casali, dei teatri pubblici soprattutto del San Bartolomeo, tempio del melodramma eroico, nel quale vi occupavano un posto di prestigio: un intero palco in seconda fila situato fra quello dei Principi Colubrano e i tre centrali di casa reale.

 

 

 

 

 

Le origini dell’opera buffa.

 

Il primo decennio di vita matrimoniale della coppia coincide con un periodo in cui stava maturando una storica evoluzione culturale riguardante forme e contenuti del teatro musicale napoletano. Durante la seconda meta del Seicento l’incalzante interesse per il crescente lusso del macchinoso melodramma sacro e profano aveva, gradualmente, ottenebrato gran parte delle molteplici seduzioni dei pubblici svaghi di corte, perciò, agli albori del secolo successivo, l’aristocrazia, l’alto clero e gli operatori del ramo avvertono l’irresistibile necessità di respirare un’aria canora più leggera, quella degli spettacoli musicali concreti e scintillanti.

In opposizione all’arabescato e slombato melodramma, affollato di complesse simbologie, di memorabili personaggi del Vecchio Testamento e dell’antica storia persiana, egiziana e greco-romana interpretati dagli impettiti e superpagati sopranisti, sorgono vibranti tre nuovi generi di dramma musicale: la Serenata encomiastica o epitalamica, l’Intermezzo e l’Opera buffa, spettacoli più consoni al teatro domestico della nobiltà, delle ricche congregazioni e dei facoltosi conventi.

La Serenata epitalamica o encomiastica, sorta di dramma musicale in due parti, a metà strada tra il melodramma e l’oratorio, quasi sempre di argomento mitologico e dai toni musicali di natura idilliaco-sentimentale, viene prevalentemente rappresentata nelle case del patriziato in occasione di particolari feste a carattere familiare e per solennizzare grandi eventi politici e sociali.

Per la varietà delle sue forme flessuose, armonicamente articolate, per l’evocazione di eroi leggendari, nei quali, spesso, la nobiltà identificava un proprio rampollo, la Serenata soddisfaceva le aspettative dei buongustai di palazzo; nel medesimo tempo, diveniva proficua palestra dei più sapienti maestri di cappella e agone di frementi lotte di virtuosismo canoro fra i più contesi italici castrati. Tra un atto e l’altro dell’opera eroica esplode, a mo’ di divertimento, l’imperioso piglio dell’Intermezzo quasi sempre articolato in due parti, con soggetto frivolo e frizzante, solitamente ambientato in case della medio-ricca borghesia; i personaggi, quasi sempre due, vengono interpretati dal soprano femmina e dal basso buffo[28].

A differenza dell’Intermezzo che vive tra un atto e l’altro del melodramma eroico, l’opera buffa e una commedia musicale con soggetto essenzialmente autonomo. Come un arguto articolo di cronaca a carattere popolaresco, redatto con linguaggio fruibile da ogni umano intelletto, l’opera buffa fotografa con la lente un po’ deformata un pungente umorismo dei reali avvenimenti della vita di ogni giorno. La scenografia disegna una piazza, un sobborgo, una locanda che hanno per sfondo la marina, il golfo, i poggi verdeggianti, il Vesuvio. Sulla scena, fra amorazzi, giochi degli equivoci, travestimenti e agnizioni scontate, si aggirano vagheggini azzimati, servette maliziose, soldatini innamorati, ruffiani petulanti e squallidi, mercanti turchi veraci e falsi a caccia di galanti avventure, vecchi babbei infatuati di verginelle sistematicamente gabbati, fantesche e schiavoncelli che, sul finire dello spettacolo, implacabilmente si rivelavano di nobile schiatta. Qui tutto palpita all’unisono con il cuore di Napoli, la Napoli vicereale allegramente maliconica e malinconicamente allegra: vi si ascolta la musicalissima voce del suo popolo, i dialoghi in gergo, felicemente chiassosi, i modulanti appelli dei venditori ambulanti, la fragorosa poliritmia dei passi delle popolane che calzano zoccoli, le canzoni sentimentali, le serenate appassionate eseguite al ritmo pizzicato delle corde del calascione, i lazzi irresistibili, i detti vernacolesi filosofeggianti e con venature di sottili intenti pedagogici. Aniello Piscopo[29], uno dei più illustri librettisti dell’opera buffa, sosteneva che la commedia non doveva essere solo uno spettacolo “pe’ spassatiempo, [ma]‘nce ha ‘mpara cuarcosa de buono costume, ca si no e ‘na cocozza pazza, che pare grossa da fora e ddinto non c’e niente”. Il Cantico dei Cantici di re Salomone ridotto a commedia in dialetto napoletano dall’avvocato Nicola Corvo[30], anche lui, talvolta, operante in casa di donna Aurora, diviene una chèlleta[31] piena di saggi insegnamenti nei quali la teologia spesso diviene pedagogico spunto per lavori di natura speculativa. Il titolo originale e tramutato nella colorita espressione La Canzone de Salommone ovvero sia La Mamma de tutte le Ccanzune votata e spiegata a lengua nosta. Quindi, sono elencate le allegorie, ossia, i Perzunagge del ludo: La Pastorella (Israele), Lo Pastore (Dio), Lo Coro de le Figliole e Lo Coro de li Ffigliule che nce credono (i religiosi), lo Coro che no’ nce crede (gli empii)[32]. Qui i sapienzali concetti di Salomone sono espressi con canora giocondità, anche il compassato Nigra sum sed formosa (Cantico dei Cantici c. I, v. 4), il noto inno alla SS.ma Bruna di Matera, tende a convertirsi in una disinvolta, quanto modulata aria di opera buffa:

I’ songo scura comme a le vviole;

Ma songo bella comme a le ccollane

E ll’oro de lo mante, e de le stole,

A vendegna ppe vvuje tengo le mmane

Chiene de calle e so’ colta a lo Sole:

A fatica pe vvuje, pe’ vve da pane,

So ffatta nera mo’, ma de natura

So’ janca comme a latte e non già scura[33].

 

Naturalmente, l’opera buffa non nasce dal nulla. Negli ultimi decenni del XVII secolo e nei primissimi anni del successivo, nelle Accademie dei mecenati, nelle sedi delle più cospicue Congregazioni, negli sfavillanti monasteri di monache era di moda rappresentare commedie e scherzi drammatici con musica e personaggi che si esprimevano in vernacolo e, soprattutto, venivano eseguite cantate da camera quasi sempre in lingua napoletana nelle quali si respirava già aria di opera buffa[34].

In opposizione al melodramma che voleva sulla scena soprani evirati vestiti da eroi dell’antichità e da profeti del Vecchio Testamento, l’opera buffa veniva interpretata da cantanti con voce naturale anche se nei stravestimenti il basso, a volte, impersonava una vecchia signora petulante ed il soprano un personaggio maschile. I soprani castrati non indossarono mai le vesti degli eroi nei melodrammi del teatro domestico di Piedimonte tranne nel 1716, in occasione dei festeggiamenti per la nascita di Leopoldo d’Austria quando ad impersonare l’allegoria di Primavera fu chiamato un virtuoso dell’Imperatore d’Austria, il marchese Matteo Sassano, il più osannato soprano dell’epoca[35].

Oltre ad eminenti professionisti del ramo, nella messinscena dell’opera buffa trovano giusta collocazione, poeti, musicisti, cantanti e strumentisti della nobiltà come Don Carlo Pacecco-Carafa dei duchi di Maddaloni, Donna Clelia Caracciolo dei duchi d’Arena e, naturalmente, la principessa donna Aurora Sanseverino.

 

 

La Cilla, prima opera buffa della storia.

 

All’inizio, l’opera buffa, ovvero, la commedeja pe’ museca, viene composta per i teatri domestici. In senso assoluto, la prima che la storia ricordi e La Cilla, commedia musicale rappresentata nel 1707, in casa di Fabrizio Carafa principe di Chiusano, per festeggiare il felice ritorno da Barcellona di suo figlio Tiberio, fatto grande di Spagna da Carlo VI d’Asburgo. Libretto, naturalmente tutto in dialetto napoletano, di Francesco Antonio Tullio[36], musica del dottor Michel’Angelo Faggioli[37]. Entrambi gli autori frequentavano casa Gaetani-Sanseverino.

Sempre nel 1707, nel palazzo ducale di Piedimonte d’Alife alla presenza del fior fiore della nobiltà napoletana, dell’alto clero, degli insigni cattedratici e della corte vicereale, vengono celebrate le nozze di Cecilia, figlia dei coniugi Gaetani-Sanseverino, con Antonio di Sangro. Gli sposi sono i futuri genitori dello scienziato Raimondo, principe di Sansevero[38].

I festeggiamenti per celebrazioni del genere duravano un mese circa: di solito cominciavano con la messinscena di un dramma eroico per musica e terminavano con la rappresentazione di una serenata o di una favola pastorale. Durante questo mese venivano eseguite cantate in lingua ed in dialetto per voce con accompagnamento di basso continuo.

A testimoniare le presenze musicali di questo evento, purtroppo ci resta solo il libretto dell’opera Il Radamisto. La didascalia recita: “Dramma per musica fatto rappresentare nel teatro di Piedimonte da Donna Aurora Sanseverino e Don Nicola Gaetani d’Aragona duca di Laurenzano in occasione degli sponsali dell’eccellentissimo sig. D. Antonio di Sangro […] con l’eccellentissima signora donna Cecilia Gaetani d’Aragona […] e ai medesimi dedicato dall’Abate Nicola Giuvo.[…] musica di Nicola Fago, detto il Tarantino[39]. Ad interpretare l’opera oltre a Chiara Fuga e Domenico Tempesti, virtuosi di camera della duchessa di Laurenzana, furono chiamati cantanti che allora andavano per la maggiore nei teatri di corte napoletani ed esteri come Anna Maria Marchesini, virtuosa del cardinale de Medici, Ludovica Petri, virtuosa del duca di Mantova.

Nell’autunno del 1711, nello stesso palazzo ducale, si celebrano le nozze del primo figlio maschio di Aurora e di Nicola Gaetani, Pasquale, il quale convola a nozze con la principessa Maria Maddalena Darmstadt di Croy, figlia del comandante in capo delle truppe austriache a Napoli. L’avvenimento si svolse in un clima festoso dai toni elevatissimi.

Vennero rappresentati il melodramma La Cassandra indovina (1° X 1711), la favola in musica La Semele (1° XI 1711) e quattro Serenate epitalamiche. I testi delle opere furono redatti ancora dall’abate Nicola Giuvo[40], la musica dal Tarantino Nicola Fago direttore musicale del Sant’Onofrio e dal vice maestro della Real Cappella, Francesco Mancini. Le serenate, probabilmente furono musicate da due giovanissimi talenti di casa Gaetani: Michele Falco[41] e Giampaolo di Domenico[42].

Nello stesso periodo, infatti, ci risulta che Michele Falco compose la musica per la commedia La Cianna, opera tutta in dialetto napoletano che fu dedicata alla giovane nuora di donna Aurora, l’Autezza serenissima Maria Matalena prencepessa de Croy, duchessa d’Aure etc. L’opera non venne rappresentata a Piedimonte ma al teatro Fiorentini di Napoli[43]. Nella prefazione all’opera si legge, fra l’altro qualche considerazione sulla implicita bravura del giovane compositore virtuoso della duchessa Aurora Sanseverino: Chi ha puosto’n museca sta commeddeja e ‘no povere sorece ‘nfus’a ll’uoglio, ‘no scuro prencepiante, e ‘no scolariello de chillo gra’ mastrone [Nicola Fago?] ch’ha fatto la primma e farra la terza; ed e uno ‘nzomma, ch’ha la varva piccerella, e perzo, essenno scarzo ancora de fonnamiento, ‘mmereta d’essere compatuto, si non se vede a lle cose soje tutta la regola e tutta la mellonia che n’abbesogna.

La commedia, probabilmente era stata rappresentata a Piedimonte ed anche in qualche altro teatro di palazzo delle famiglie Darmstadt o Sanseverino, sempre per esigenza artistica modificata, accorciata con parti soppresse per cui quando giunse al teatro dei Fiorentini ancora rimpicciolita per necessità fece dire al librettista: De la Commedeja te dico ‘n quatto parole ca no nc’e restato autro che l’addore; pe l’accorciare cchiu de ‘na vota, pe’ la fa cchiu azzetta a lo genejo de lo prubbeco, e pe’ da sfazejone a cchiu d’uno, se nn’e levato quase tutto chello ca ‘nc’era ‘mprimmo. Per l’occasione, Giuseppe Baldassarre Caputi, arcade degli Spensierati di Rossano, dedicò agli sposi Pasquale Gaetani e Maria Maddalena Darmstadt una lussuosa pubblicazione di componimenti epitalamici nella quale sono elencate composizioni poetiche di oltre quaranta nobili, cattedradici e musicisti. Il nome di Giampaolo di Domenico, attore, cantante e compositore di casa Gaetani termina l’elenco con un sapido sonetto in napoletano di cui gli ultimi cinque endecasillabi recitano:

 

Iatevenne a dormire, e senza strille

Date de mano all’ammorose allotte:

Iate coll’ora bona, e mille, e mille

Dannove abbracce, e base, ‘nquatte botte

Faciteve ‘na morra de Nennille.

 

Per poter curare agevolmente la gran mole di pubblicazioni a stampa occorrenti a tale evento Aurora e Nicola Gaetani chiesero e ottennero che la real tipografia di Michele Luigi Muzio da Napoli fosse portata a Piedimonte.

 

 

 

Si festeggia la nascita di Leopoldo, imperatore mancato.

 

Sempre a Piedimonte nei nei giorni 20, 21 e 23 maggio del 1716, per la felicissima nascita del serenissimo Leopoldo, arciduca d’Austria, Nicola Gaetani e Aurora Sanseverino fecero comporre e rappresentare la Serenata augurale La Gloria di Primavera, libretto del loro poeta ufficiale di corte, abate Nicola Giuvo, musica del cavaliere Alessandro Scarlatti, primo maestro della Real Cappella, scene dell’architetto imperiale Cristoforo Scoor[44]. Dal lato canoro, le allegorie delle stagioni vennero interpretate dal marchese Matteo Sassano (Primavera), da Margherita Durastanti (Estate), da Francesco Vitale (Autunno) e da Gaetano Borghi[45] (Inverno), virtuoso di donna Aurora Sanseverino.

Don Antonio Manna, virtuoso dell’Imperatore, interpreto la parte del dio Giove.

Per tale evento, ancora una volta, il palazzo ducale di Piedimonte ospita eminenti artisti e letterati, l’alto clero, la nobiltà locale e forestiera, la corte vicerale. Per il regale evento Donna Aurora compose e declamò un superbo carme in latino: L’Ypatio Paladino (ac Dynastis Neapolitani Regni Augustissimi LEOPOLDI archiducis), nel quale ella celebra la gloriosa dinastia degli Asburgo e la nascita del novello Alcide. L’arte, l’erudizione, la celebrità di Aurora Sanseverino Fardella non nasce dal niente ma è il frutto sapienziale di una lunga tradizione culturale di due grandi famiglie che avevano già vissuto seicento anni di storia gloriosa[46]. Nel 1730, quando essa muore questa tradizione viene onorata da numerose generazioni di suoi eredi; vale per tanti l’opera ingegnosa del Principe Raimondo di Sangro, universalmente conosciuto come il padre della storica Cappella Sansevero di Napoli visitata ogni giorno da curiosi turisti italiani ed esteri[47].

 

 

[1]Eleonora (Pisticci? 1657-Napoli, 1691), figlia di Alfonso IV de Càrdenas, conte di Acerra e di Faustina Carafa Principessa di Colobraro, nel 1670 andò sposa a Domenico Carafa, V° principe di Colobraro.

Nel loro lussuoso palazzo fu sempre di casa la Musica e di casa fu la famiglia di Alessandro Scarlatti fin dal giorno in cui pose piede a Napoli. La coppia non ebbe figli e trascorse una intensa vita mondana tra la baronia di Formicola (CE), l’avito palazzo Carafa della Stadera a Sud-Est di piazzeta Nilo, quello del cugino Carlo, duca di Maddaloni, il cospicuo convento di Santa Chiara, ove lo stesso Carlo aveva fatto monacare cinque proprie figliole e i migliori teatri di Napoli. Eleonora si era distinta anche nelle opere di beneficenza, esercizio che risalta dalle sue ultime volontà testamentarie.

La sua prematura morte, avvenuta il 13 settembre del 1691, fu compianta dalla Napoli artistica e più umana; il corteo funebre venne accompagnato da cento monaci Zoccolanti, dal Capitolo napoletano composto da trenta canonici, ventidue eddomadari, diciotto cappellani, settantacinque seminaristi. La coltre di lana d’oro fu portata dagli pezzenti di San Gennaro, ed altri seguivano il cadavere, che fu portato scoperto, vestita da monaca domenicana (Antinio Bulifon Diario del 13/9/1691). Come alcuni altri de Càrdenas di quel secolo, anche Eleonora de Càrdenas potrebbe essere nata a Pisticci, allora feudo dei conti di Acerra. Domenico, suo marito, era figlio di Dionora (Eleonora) Carafa, principessa di Colobrano e di quel Giuseppe Carafa di Maddaloni che nel 1647, i seguaci di Masaniello gli staccarono la testa per porla in una gabbia e appenderla sotto l’arco della Porta San Gennaro al ludibrio del popolo napoletano.

[2]Alessandro Scarlatti (Palermo 1660-Napoli 1725). Giovanissimo, unitamente ad alcuni suoi familiari, si trasferì a Roma ove, secondo una tradizione non documentata, prese lezioni di musica anche da Giacomo Carissimi (1605-1674). A Roma, diciottenne, entrò al servizio della regina Cristina di Svezia; nel 1679 venne messa in scena la sua opera Gli equivoci nel sembiante (Una copia della Partitura de Gli equivoci…fu portata a Napoli e messa in scena nel teatrino domestico dei Maddaloni).

Alla rappresentazione furono presenti i Carafa duchi di Maddaloni e i principi di Colobrano, Domenico ed Eleonora, che tanta parte ebbero nella elaborata trattazione per il trasferimento dello Scarlatti da Roma a Napoli. E’ universalmente risaputo che il compositore siciliano nella città di Sebeto e di Partenope diverrà presto un caposcuola.

[3]La presente relazione è il prosieguo di un mio saggio critico ad un lavoro di Ulisse Prota Giurleo (Napoli 1886 Perugia 1966) I Teatri di Napoli del secolo XVII pubblicato postumo a Napoli da Il Quartiere di Ponticelli, 2002.

[4]Compare di battesimo fu Ferrante Caracciolo, duca d’Airola.

[5]L’Abate Bonifacio Petrone, detto Pecorone (Saponara, Pz 1679 - Napoli 1734). Il cognome Pecorone fu assunto dal suo bisavolo Laverio che per persecuzione fuggiasco ebbe per ben di cangiar l’antico cognome della Fameglia Petrone nell’anzidetto Pecorone, come registra un istrumento del notaio Giambatista Padule di Saponara: Conventione facta inter Onoratum de Cioffo, et Laverium Petrone, dicto à vulgo Laverium Pecoronem… Bonifacio Pecorone studiò canto nei conservatori napoletani di Sant’Onofrio (1693-1701) e di Santa Maria di Loreto (1704-07). Nel 1717, su raccomandazione di Alessandro Scarlatti, venne assunto, in qualità di basso, nella Cappella Reale e, nel ’27, anche in quella del Tesoro di San Gennaro. L’Abate Pecorone cantò nei più ricchi conventi della capitale soprattutto in quello della Trinità Maggiore dei PP. Gesuiti; fu personaggio protagonista in vari drammi sacri per musica dei quali ricordiamo Santa Maria Siriaca; Il Trionfo di Sant’Alessio, Il Martirio di Santa Caterina Vergine d’Alessandria (in quest’opera l’Abate Pecorone impersonò la parte dell’Imperatore indossando un vestito ricamato, cioè corazza, girella, manto, corona di lauro, stivaletti e coturni di gioie, inoltre: una giamberga di Sames di oro, gallonata d’argento con giamberghino finto e calzone differente, con cappello e pennacchiera), Santa Elisabetta d’Ungheria, etc. Fece parte della Congregazione dei musici di cui, nel ’23 ne fu governatore. Nel 1729 l’Abate Pecorone pubblica le sue Memorie (Napoli, tip. Angelo Vocola, 1729) nelle quali vi è uno spaccato della Saponara sanseverina (reliquia dell’antica Grumento) e della vita artistica e sociale napoletana coeva. Interessanti sono le sue osservazioni quando fa notare la differenza del prezzo del pane tra Saponara (1 rotolo 3 tornesi: 1 gana e mezzo) e la vicina Battipaglia (1 rot. 4 grana: la bellezza di 8 tornesi). Bonifacio Petrone morì a Napoli nel 1734, aveva 54 anni.

 

[6]Abate Pecorone: Memorie, Napoli, tip. Angelo Vocola, 1729, p. 7.

 

[7]Uno dei primi palazzi napoletani dei Sanseverino principi di Bisignano era in via Spaccanapoli nel quale Carlo V°, nel 1535, di ritorno da Tunisi, fu ospite per un mese circa e, nel secolo scorso è stata la casa di Benedetto Croce. Giuseppe Coniglio (I vicerè di Napoli, Napoli, ed. Fiorentino, 1967, p.51) sostiene che Carlo V ritornava dalla spedizione contro Tunisi e per invito di Ferrante Sanseverino principe di Salerno, di Pietro Antonio Sanseverino principe di Bisignano e di Alfonso d’Avalos marchese del Vasto, aveva deciso di visitare il Regno di Napoli. Sbarcò a Reggio Calabria ove fu ospitato dal Bisignano, di là si recò presso il principe di Salerno ed il 25 dicembre del 1535 fece a Napoli il suo ingresso […]. Verso la metà del XVI secolo i Sanseverino costruirono l’imponente palazzo di Chiaia (un istrumento del 6 maggio del 1548 riprodotto da Fabio Colonna di Stigliano in Napoli nobilissima, vol. XIII, p. 70, afferma che tal Ferdinando Criscio di Napoli si obbligava a tagliare dalla cava di pietre dolci appartenente al Principe il materiale occorrente alla costruzione del palazzo che questi stava innalzando nel Borgo di Chiaia). Agli inizi della seconda metà del ‘600 Luigi e Carlo Maria Sanseverino permutarono il palazzo sito tra via Toledo e via della Quercia con una sontuosa villa del casale di Barra del ricco mercante di Anversa, Gaspare Romer.

 

[8]Dopo la morte di Nicolò Bernardino Sanseverino di Bisignano avvenuta il 22 settembre del 1606, sembrava che si fosse estinta la nobilissima ed antichissima famiglia. Gli successe come parente più prossimo Donna Giulia Orsini, nata da una sua sorella, vedova del marchese di Fuscaldo, la quale in età matura si maritò col giovane Tiberio Carafa, secondogenito del marchse d’Anzi, il quale per ragioni maritali, prese il titolo di principe di Bisignano. Ma per motivi di un precedente fedecommesso di famiglia il titolo di principe di Bisignano con le relative proprietà tornarono ai Sanseverino di Saponara, quindi ai coniugi Carlo e Maria Fardella.

 

[9]Antonio Bulifon: “A 18 agosto morì il conte di Chiaromonte di Casa Sanseverino all’improvviso. Questi era succeduto al Principe di Bisignano come fratello di D. Luigi che morì nell’anno passato, qual era uomo meritevole di gran lode per le sue virtù e dottrina e bontà di vita. Ambidue morirono vecchi”.

[10]Autore di libri che esprimono esemplari insegnamenti alle virtù il Principe Luigi Sanseverino Bisignano ogni volta facevasi ricordare che aveva da morire, e lui si fece il seguente epitaffio: Hic iacet Aloysius peccator /Bisignani princeps.

[11]La giovane sposa doveva contare circa dodici anni di età essendo i genitori sposati nel febbraio del 1679 (A. Bulifon, Diario).

[12]Benedetto Croce (I Teatri di Napoli, Adelphi, 258) afferma che con la rappresentazione della commedia Los empenos di un acaso del drammaturgo Pedro Calderon de la Barca avvenuta nel 1709 in casa della duchessa di Monteleone Pignatelli si consumarono “le ultime faville di una grande e vivacissima fiammata” dei Grandi di Spagna residenti a Napoli.

[13]ASPN, 1885, p. 463.

 

[14]Costantino Gatti (Sala Consilina ?-†1743): Memorie storico-topografiche della provincia di Lucania.

 

[15]Cataldo Amodei (Sciacca, Ag 1650 ca. Napoli 1716?). Valoroso insegnante nei conservatori napoletani di Sant’Onofrio e Santa Maria di Loreto; fu Maestro di Cappella di cospicui conventi e di ricche Congregazioni laiche per i quali compose Messe, Mottetti, drammi sacri e cantate. E’ giunto a noi un oratorio a tre voci su libretto di Andrea Perrucci Fardella: Il terzo dolore della Vergine. Non di rado la sua musica venne interpetrata dall’Abate Bonifacio Pecorone.

[16]La Cantata A buje parlo, a buje dico del grumentino Carlo Ferro e che il basso Bonifacio Pecorone eseguiva spesso nella casa di Carlo Sanseverino e Anna Maria Fardella potrebbe essere un’articolata scena dell’opera buffa; conta 130 versi di varia lunghezza. Oggetto dell’opera è una fedigrafa Lena; il protagonista è il solito Cuoseme che una volta, quando nella sua vorsa c’erano denare veniva corteggiato da amice e pariente, veraci e acquisiti, da mùsece e poète; la donna alla taberna lo circuiva per ottenere da lui ciò che boleva. Fèmmena non ‘nc’è stata -cantava Cuòseme- / Che non ha fatto pe’ mme la speretata. / Chi ‘n casa, chi ‘n chiazza, / Facèano comm’a Pazze / Quanno lo nomme sulo / Sentèano nommenà de ‘sto figliolo. La Cantata conclude con una considerazione amara ma sempre di moda: Maro l’ommo sbentorato, / Che no stimma le mmegnole, / Quanno vene a male stato, / Prova chello che non vole. / Mperzò

chiagnendo dico: / Chi cade in povertà perd’ogni Amico.

[17]Il canonico di casa Sanseverino-Fardella, Carlo Ferro, figlio di Vincenzo e di Porzia [?], dodicenne, nel 1662 entrò come alunno alla Pietà dei Turchini, ove ebbe a maestri Giovanni Salvatore, Francesco Provenzale, Carlo de Vincentiis e Nicola Vinciprova.

 

[18]Baldassarre Pisani (Napoli 1650 – dopo il 1710) figlio di Ignazio, mercadante e Agnesa Mazzola. I suoi libretti per musica: Arsinda d’Egitto, 1680 (m. Cristoforo Caresana) Disperato inocente 1673 (m. Francesco Antonio Boerio), Adamiro, 1681 (m. Giovanni Cesare Netti.

[19]Andrea Perrucci (Palermo 1-6-1651 Napoli 6-5-1704) nacque da Francesco e Anna Fardella. Fu poeta dialettale, trattatista di arte drammatica, avvocato; fu segretario dell’Accademia dei Rozi di Napoli, dei Raccesi di Palermo, dei Pellegrini di Roma e Censore Promotorio degli Spensierati di Rossano alla quale appartenevano i coniugi Nicolò Gaetani, duca di Laurenzana e Aurora Sanseverino. Il Perrucci dimostrò sempre ammirazione per la cugina Donna Aurora per la quale compose, fra l’altro, il seguente sonetto laudativo: Gran cosa è Nobiltà! Chi n’è provisto / Un gran Tesoro, un gran splendor possiede. / Ma vantar d’Avi eccelsi il sangue misto, / E’ degli altrui trionfi esser erede. / Gran

pregio è la beltà! Natura il diede; / Ma di raro perfetto esser s’è visto: /Brio Maestoso a la Beltà non cede; / Ma son doni del Ciel, non proprio acquisto. / Ma se a lo studio, ed alla Gloria attende, / E sparge grazie AURORA generosa / Con proprij rai più che d’altrui risplende. / Quindi s’è nobil, Bella, e Maestosa, / Solo al Mondo ammirabil la rende, / L’aver Grand Alma, ed esser Virtuosa.

A volte il Perrucci amava firmare le sue opere aggiungendo al cognome paterno quello della sua amata madre. Egli ci ha lasciato oltre quaranta opere drammatiche, una delle quali, La Cantata dei Pastori ossia La nascita del Verbo incarnato, ancora oggi, viene inserita tra i titoli dei cartelloni di teatro.

 

[20]Nel 1713, il violinista-compositore Giuseppe Antonio Avitrano fece stampare coi tipi di Michele-Luigi Mutio 12 Sonate a 4, opera terza, che dedicò a Carlo Pacecco-Carafa, VIII duca di Maddaloni. Ognuna delle Sonate porta il nome di una persona o di una famiglia imparentata col duca o, comunque, socialmente o politicamente vicine. Le Sonate, dodici gioielli di musica strumentale, per eleganza di forma e nobiltà di stile, portano i seguenti titoli: L’Aurora, l’Aragona, L’Avalos, La Barberini, La Borromini, La Carafa, La Colonna, La Colubrano, La Maddaloni, La Pacecco, La Pescara.

 

[21]Nel 1696 Nicolo Gaetani dell’Aquila d’Aragona, duca di Laurenzana, principe di Piedimonte, consigliere di Stato e Gran Giustiziere, come sua moglie Donna Aurora, era stato arcade degli Spensierati di Rossano. Dagli inizi del ‘700 tenne nelle sue dimore di Napoli e di Piedimonte cenacoli di letterati-filosofi di ascendenza cartesiana cui partecipavano Nicolo Giuvo, Matteo Egizio, Giambattista Vico, Lorenzo Ciccarelli, tipografo clandestino conosciuto con lo pseudonimo Cellenio Zacclori. Probabilmente nella sua casa e stata costituita la prima Logge massonica napoletana di fede inglese. Da un documento che, nel 1885 venne scoperto fra le carte del processo Pallante e, d’allora appartenuto al pittore Vincenzo Caprile e allo scultore Enrico Mossuti, si legge che l’11 (22) maggio 1728, lord Henry Hare di Coleraine, Gran Maestro della Gran Loggia d’Inghilterra, esaudisce una istanza pervenutagli e firmata da alcuni Fratelli di Napoli e dintorni con la quale essi chiedevano di regolarizzare le proprie Logge massoniche. Con quel documento Lord Henry Hare incarica ed autorizza i Fratelli Mr. George Olivares ed il violinista-compositore Francesco Xaverio Geminiani (Lucca 1687 – Dublino 1762), di recarsi a Napoli per regolarizzare le Logge-accademie napoletane, una delle quali venne intitolata Perfetta Unione. La Loggia in questione ebbe la luce nella casa di Tiberio Carafa di Chiusano, in quella di Giacomo Milano, duca di Gerace, in quella del duca di Laurenzana o in una di altri aristocratici interessati a lavori di latomie? E’ certo che diciassette anni dopo una Perfetta Unione sara guidata dallo scienziato Raimondo di Sangro, Principe di San Severo, nipote di Aurora Sanseverino e Nicolo Gaetani. Si e certi, inoltre, che il Gran Maestro della Gran Loggia d’Inghilterra delego il massone Geminiani a legittimare i Fratelli napoletani in quanto tra il 1707? e il 1714 il musicista lucchese, unitamente al violinista-compositore Arcangelo Corelli, in varie occasioni, aveva operato come violista e violinista nell’orchestra della Real Cappella di Napoli e nei teatri domestici del patriziato dei casali di Posillipo, del Vomero, dell’Arenella, di Capodimonte. Quindi in quegli anni egli aveva avuto modo di conoscere gli ambienti aristocratici napoletani con interessi di natura speculativa. Nel 1714 il Geminiani si trasferi a Londra ove incontro un proficuo periodo (1714-32) di favorevoli avvenimenti di natura artistica, imprenditoriale e culturale: comincio con la pubblicazione (1716) delle Sonate / A Violino, Violone, e Cembalo, Dedicate / Al Illustrissimo et Excellentissimo Signore / Il Signor Barone di Kilmans’egge / Cavallerizzo Maggiore e Ciambellano / di Sua Maesta Britannica […] e culmino con l’elezione a Director and perpetual Dictator of all our Musical Performances della Loggia Queen’s Head e che dal 18 febbraio del 1725, per la professione dei fratelli che la componevano, prese il nome Philomusicae et Architecturae Societas. Nel 1723, Francesco Xaverio Geminiani era entrato a far parte della Queen’s Head divenendo il primo italiano della massoneria inglese e colui che doveva convertire in quella comunione, la prima Loggia napoletana, forse, quella di casa Gaetani-Sanseverino.

[22]L’Elidoro in oggetto e una favola pastorale? un dramma per musica? un dramma sacro che, la moda dell’epoca, voleva infarcito di personaggi favellanti in napoletano o in siciliano o in calabrolucano?

Il titolo esatto e veramente L’Elidoro o L’Alidoro? o Eliodoro? Trovo traccia di un melodramma L’Elidoro rappresentato nel 1686 ma a Napoli, non a Saponara; l’autore della musica e il fiorentino Giovanni Bonaventura Viviani (che in quell’epoca si dichiarava maestro di Cappella dell’eccellentissimo principe di Bisignano), no Carlo Sanseverino, come viene comunemente attestato da diversi scrittori, anche sincroni. Supponiamo che L’Elidoro del Viviani sia stato composto per Saponara e poi rappresentato a Napoli, nel prolungato quadro dei festeggiamenti per le nozze Gaetani-Sanseverino, allora nel tal caso il principe Carlo è solo l’autore del libretto e, forse, della musica di qualche aria.

Trovo un L’Alidoro ovvero L’Amore honesto compagno della fortuna, dramma per musica, rappresentato l’anno 1700 (a Ferrara o ad Urbino) nel teatro privato del conte Pinamonte Bonaccossi, la musica e di Don Gabriele Balami, maestro di cappella della metropolitana d’Urbino (Modena Estense); un altro Alidoro venne rappresentato nel 1740, al Fiorentini di Napoli con libretto del napoletano Gennarantonio Federico e musica di Leonardo Leo, l’opera fu dedicata a D. Domenico Caracciolo, principe di Torella.

[23]Gabriele Fasano (1630ca. inizio ‘700), poeta dialettale napoletano. Francesco Redi (1626-1698) nel suo Ditirambo Il Bacco in Toscana ricorda il Fasano con altri uomini illustri appartenenti a diverse accademie napoletane dell’epoca. A sua volta, il Fasano, trovo occasione di ricambiare la cortesia immortalando l’illustre scienziato nella stanza 31 del canto XIV della sua Gierusalemme liberata … traducendo il distico tassiano: Ei molto per se vede, e molto intese / Del preceduto vostro alto viaggio…con Chisto e no Rede ‘nquanto a lo sapere / E ne parlajemo assaje de sto viaggio / Na vota nziemme…

[24]Bernardo di Domenico (Napoli 1683-1759), autore di VITE DE’ PITTORI SCULTORI ED ARCHITETTI NAPOLETANI, nel 1717 sposo Palma Vittoria Nicolini. Nelle disposizioni canoniche rilasciate in Curia dichiaro di avere 33 anni e di abitare nel Palazzo della Duchessa di Laurenzana della quale era gentiluomo. Anche il primo testimone, Giovan Paolo de Domenico, suo fratello, dichiarava che era domiciliato nello stesso Palazzo ed anche lui gentiluomo della medesima Duchessa. Bernardo e autore del libretto Basilio Re d’Oriente Dramma per musica da rapresentarsi nel Nuovo Teatro de’ Fiorentini in giugno 1713. dedicato […] al conte Wirrico di Daun, vicere e capitano generale in questo regno di Napoli […]. Napoli, Michele-Luigi Mutio, 1713. La dedica e di Nicolo Serino. Al discreto e virtuoso Lettore si informava che Bernardo, nonostante i suoi onerosi impegni di lavoro relativi alla faticosa compilazione del succitato trattato, agli affreschi e alle tele da dipingere, per stare al passo con la moda dell’artista eclettico, scriveva: “Ti presento […] Basilio rivestito et adornato all’eroica da eroica Penna: che tutto che impiegata in altri severissimi studi, non ha sdegnato tralasciarli per compiacerti […] Bernardo de Dominici” Musica di Nicola Porpora, maestro di cappella dell’Ambasciatore di Portogallo, gia maestri di cappella della della duchessa di Laurenzana.

Interlocutori: Gaetano Borghi (Basilio), [virtuoso di Donna Aurora duchessa di Laurenzana] Gio. Antonio Archi, detto Corteccino (Leone), Silvia Lodi (Doristo), Angela Augusti (Placidia), Maria Maddalena Tipaldi (Flavia), Giovan Paolo di Domenico (Bareno), Livia Nannini, detta la Pollacchina (Dorilla), Giovan Battista Cavana (Nesso).

[25]Una leggenda narra che nel fiume Sebeto della Napoli greco-romana, durante le celebrazioni del solstizio d’estate culminavano con un tripudio di canti e danze pirriche, gli artisti vi si immergevano (si battezzavano) per ottenere ispirazioni più elevate, i condottieri per propiziarsi proficue vittorie, le giovani donne per divenire madri di celebri personalità. La storia sostiene che nel IV secolo, dopo che Costantino il Grande dà la libertà di culto ai Cristiani, verso la foce di quel sacro fiume viene innalzata la chiesa di San Giovanni Battista. In tal modo il magico rito purificativo delle religioni pagane adottate da quei Romani veniva convertito nella suggestiva abluzione sacramentale di ascendenza giovannea. Ma quella sorta di catarsi di rito pagano che lavava, redimeva anche le più controverse passioni umane col bagno mistico dell’arte non furono mai sostituite del tutto. Ancora nel Rinascimento, a Napoli, i Sindaci ovvero gli Eletti del Popolo, venivano nominati il 27 dicembre, giorno dedicato a san Giovanni Evangelista, ma, soprattutto il 24 giugno, durante gli esultanti e pirotecnici festeggiamenti per I Fuochi di San Giovanni Precursore, effettuati sulla spiaggia dell’odierna via Marina, alla foce del Sebeto. Anche Pietro Antonio Sanseverino di Bisignano fu nominato Eletto del Popolo il giorno di San Giovanni Battista del 1534 (l’anno dopo egli ospitò nel suo avito palazzo a Spaccanapoli l’imperatore Carlo V).

 

[26]Per molti napoletani la collina di Posillipo e stata considerata fonte di ispirazione artistica, avvicinandola, spesso, al Parnaso apollineo e bacchico.

[27]Giacomo del Po, pittore eclettico sia come decoratore che come scenografo, nell’aprile del 1683 giunse da Roma a Napoli con la compagnia teatrale guidata da Alessandro Scarlatti e voluta in massima parte dai Carafa Duchi di Maddaloni e Principi di Colobrano. In seguito, il pittore romano fece parte del cenacolo Gaetani-Sanseverino.

[28]Protagonisti dell’opera eroica in musica erano i super pagati soprani di sesso maschile, gli evirati, mentre nell’opera buffa venivano utilizzati soprani muliebri, con voce naturale.

[29]Aniello Piscopo (fine XVII sec. Inizio XVIII). Librettista di commedie in dialetto napoletano musicate da Giampaolo De Domenico ( Lisa pontegliosa, T. Fiorentini, 1719) e Michele Falco ( Lo ‘mbruoglio d’ammore, T. Tiorentini, 1717), compositori di casa Gaetani Sanseverino e da Leonardo Vinci ( Lo cecato fauzo T. Fiorentini, 1719).

[30]Nicola Corvo (1670ca.-1740ca.) esercitò l’avvocatura fino a meritare la rispettabile carica di Presidente della Reggia Camera della Summaria. Vacheggiò, platonicamente, molte donne ma resto eterno scapolo. Fu allievo di Domenico Aulisio nelle lingue greca, latina ed ebraica e di Girolamo Cappello in teologia e giurisprudenza; fu condiscepolo e amico del sommo poeta dialettale e Accademico Palatino Nicola Capasso (1671-1745). Gareggiò, con le sue poesie e commedie, con i più noti poeti e commediografi coevi. Si sforzò di scrivere nell’italiano più puro; seguendo la moda del suo tempo, nei suoi lavori drammatici per musica introdusse personaggi che con acutezza di spirito, si esprimevano in dialetto napoletano. E’ autore, tra l’altro, del Trionfo della castità di sant’Alessio (1713) con musica di Leonardo Leo ed interpretato, nel personaggio protagonista, dall’Abate Bonifacio Pecorone; compose il poema in ottava rima Accomenzaglia nel quale esprime in un coloritissimo dialetto napoletano le note gesta di Masaniello, è un bel monumento storico per valutare i pensieri, e le forze motrici di quegli avvenimenti (Vincenzo de Ritis Vocabolario Napoletano Lessicografico e Storico, vol, I, p. 401).

[31]Chèlleta è un vocabolo che si adopera in sostituzione di cosa di cui non ci sovvenga il nome ma i librettisti di opera buffa se ne servivano per indicare un loro lavoro drammatico di poco conto, con personaggi del popolo che si esprimono in dialetto con un linguaggio frivolo, faceto, gaio in contrapposizione al dramma eroico che ospita personaggi di ceto superiore dal linguaggio contegnoso, accigliato, preoccupato.

[32]L’appassionato dialogo tra il Pastore (Dio) e la Pastorella (Israele) esprime. Lo Pastore (Dio): Bella, l’ammure tuoje so’ nzuccarate / Chiu d’uva de lammicco e moscarella / L’addure chiu sottile e prelibate / Li ppuorte ncuollo tu, che ssi la bella / Chiu bella nfra le bbelle annommenate… La Pastorella (Israele): Ammore bello mio, sposo carnale, / Tirame addo tu staje! Corro a l’addore. / L’addore tujo; ma tu si non t’acale / I’ no’ nce arrivo a tte! Quanno da fore / Sto da le bracce toje, so’ ttale e quale / A chi dinto a lo nfierno arde e no’ mmore / Sperenno de mori… Si tu ssi sciso / Dinto

a lle bracce meje sto mparaviso! (c. I, vv 2 e 3).

[33]In questa ottava potrebbe celarsi il significato del vocabolo gotico e, nel medesimo tempo, il mistero dell’Iside, ossia, della Madonna Nera, collocata nelle cripte delle cattedrali gotiche da quei costruttori, per volere di San Bernardo di Chiaravalle. Sul culto di Iside in Europa gli storici sostengono che al tempo in cui il dio Mitra divenne oggetto di culto dei Romani la bruna dea egizia lo fu dei Galli. Si crede, infatti, che la città di Parigi ne prendesse il nome, e che ad Issi, presso la stessa Parigi, vi fosse un tempio ad essa dedicato; ne fanno fede tracce di reperti archeologici ed alcuni monumenti. In quel fascinoso Medio Evo in continua evoluzione sociale e religiosa generata dai nuovi rapporti tra i popoli germanici con quelli dell’Impero Romano, ma soprattutto dai conflitti armati, dai commerci e dagli scambi culturali tra l’Europa con l’Oriente Islamico, sorgono corporazioni, sette religiose, nuove scuole di pensiero, lingue neolatine che cantano l’ossequio alla Madonna e alla Donna angelicata, tema originato nella Corte d’Amore e di Bellezza concepita dalla madre di Ugo di Provenza, re d’Italia e ispirata ad inconcepibili ideali libertari, inconcepibili per

Liutprando di Cremona che, dopo la morte di quella marchesa, ironizzò col noto detto: E’ finito il tempo in cui Berta filava! I Costruttori di Cattedrali imbevuti di ardente fede religiosa e di una tenace dedizione alle pratiche di scienze occulte, sostennero di non dare un taglio netto al passato ma di congiungerlo al presente mediante la preghiera purificatrice che rigenerava la Demetra nera travasandovi le prerogative da Iside alla Madre di Dio, Notre Dame operando quel processo sublimativo che trasforma il nero in bianco. Se proviamo ad osservare dall’aereo la ubicazione delle prime Notre Dame in ordine di tempo vi troveremo non solo riflessa su di essa la costellazione della Vergine, ma la stessa posizione di ogni cattedrale con l’altare verso oriente, verso l’Anatolia terra dalla quale giunge la Luce che annulla le Tenebre.

 

[34]Scherzi drammatici: sono drammi sacri in musica con alcuni personaggi buffi che si esprimono in dialetto; venivano rappresentati, di solito, nei teatrini dei conventi.

[35]Uno dei tantissimi ammiratori del Sassano, Aniello Cerasuolo, scrivano della Vicaria, descrisse la fama acquisita dall’osannato usignolo nel colorito sonetto A laude di Matteuccio Sassano: Da che tu sciste a chelle prime scene / Restaje chiu d’uno comme a maccarone / D’ogne lenguaggio, d’ogne nazione / Fore le laude toje cchiu dell’arene. /‘No Spagnuolo (‘ntis’io) disse: Esto tiene / Mas solsura d’Orfeo y d’Anfione; / ‘No Calavrese disse: Aju ragione / Mannaja d’oje, e comme canta bbene. / Corpo del mondo, ma no poco chiano / Disse ‘no vecchiariello Sciorentino: / Oh, non in antesi mai simil soprano. / Ma Giorgio lo Tedisco dette ‘nchino / E per Dio, disse, per sentir Sassano / Mi starei quattro giorni senza vino. (Giorgio lo Tedisco = Georg Friedrich Handel, Halle 1685 – Londra 1759).

[36]Francesco Antonio Tullio fu noto con lo pseudonimo Colantuono Feralintisco (Napoli 1660-ivi 1737).

Compose circa quaranta libretti per musica quasi tutti in dialetto napoletano e rappresentati al Nuovo e al Fiorentini. Al Fiorentini, nel 1710 fece rappresentare Li viecchie coffeiate (musica del ventenne Michele Falco uno dei tanti giovani artisti cresciuti artisticamente in casa Gaetani-Sanseverino) con dedica a l’autezza Serenissima de la segnora Prencepessa Darmstadt, futura consuocera di Donna Aurora Sanseverino; l’anno dopo, sempre al Fiorentini, in occasione del prolungamento a Napoli dei festeggiamenti delle nozze di Pasquale Gaetani dell’Aquila d’Aragona con la Principessa Maria Maddalena di Croy iniziate a Piedimonte, il Tullio mise in scena La Cianna con musica del giovane Michele Falco.

[37]Michelangelo Faggioli (Napoli 1666-1733), dottore in legge e musicista: e autore di cantate da camera in lingua ed in dialetto, ha il vanto di aver composto (libretto di Colantuono Feralintisco) La Cilla ritenuta la prima opera buffa della storia.

[38]Il Principe Raimondo perpetua il ricordo dei suoi genitori con due superbe sculture che allinea fra quelle che raffigurano il cammino iniziatito della Cappella Sansevero, ovvero Il Tempio della Pietà. Qui Cecilia simboleggia la Pudicizia, Antonio il Disinganno. Su di una tavola spezzata che fa da sfondo alla Pudicizia e vergata la seguente epigrafe: “Pace eterna a Cecilia Gaetani dell’Aquila d’Aragona, figlia di Nicolò, duca di Laurenzana, e di Aurora Sanseverino del Principe di Bisignano, ottima coniuge del duca di Torremaggiore di Sangro, che rifulse per i costumi, l’eleganza, l’ingegno, la pietà, la religiosità e la fede, da potersi uguagliare alle più nobili e più virtuose matrone di ogni tempo. Visse anni 20 e decedette il 7 gennaio 1711. Il figlio, Raimondo di Sangro, Principe di San Severo, affinché i di lei meriti esimi divenissero più insigni, con animo grato e con amore curò questo moumento, e la costruzione del tumulo, alla madre incomparabile nell’anno del Signore 1752. La scultura è di Antonio Corradini. Francesco Queriolo, invece, e l’autore del Disinganno (l’uomo avvolto in una rete di corde). Il relativo epitaffio, corredato di tante pietose bugie, recita: “Ad Antonio di Sangro, Duca di Torremaggiore, figlio di Paolo, Principe di San Severo, ammirabile per l’eloquenza, l’ingegno e le varie vicende, il quale, perduta in gioventù la consorte e non risposatosi, avendo i suoi giovanili ardori più che soddisfatto, peregrino in tutta l’Europa lontano dalla Patria e ritornato, avendo riconosciuto da se stesso i propri errori, Sacerdote ed Abbate di questo Tempio, per santità di costumi insigne, morto il 6 settembre 1757 all’età di 72 anni, mostrò che all’umana fragilità non può essere data un’esistenza di grandi virtù senza vizi. Il figlio Raimondo, Principe di San Severo, per non negare nulla al padre e nulla alla verità, curò che fosse scritto e posto il di lui elogio”.

[39]Nicola Fago (Taranto 1676-Napoli 1745), uno dei pochi laici insegnanti degli Istituti musicali napoletani, apprese da Francesco Provenzale nella Pieta dei Turchini dove, in seguito, divenne 1° Maestro.

Dei suoi discepoli ricordiamo Leonardo Leo, Francesco Feo, Nicola Jommelli, Nicola Sala quasi tutti hanno operato in casa di Donna Aurora Sanseverino o in quelle dei suoi familiari. Compose prevalentemente musica religiosa; quasi tutti i suoi melodrammi furono composti per il teatro del palazzo ducale dei Gaetani-Sanseverino di Piedimonte.

[40]Nicola Giuvo, poeta ufficiale di casa Gaetani-Sanseverino. Come Nicolò Gaetani fu un inguaribile filosofo di ascendenza cartesiana. Nel 1728 compose ventiquattro lettere-commento (diciassette delle quali furono scritte da Piedimonte) alle Passiones Animae (1650) di Renato Cartesio, riferite soprattutto al rapporto anima-corpo. Quattro anni più tardi, sullo stesso tema, Nicolò Gaetani dell’Aquila d’Aragona pubblicherà Degli Avvertimenti intorno alle passioni dell’animo, Napoli, Felice Mosca, lo stesso editore di Giambattista Vico. Dopo la morte del duca Gaetani, il Giuvo passerà a dirigere la fornitissima biblioteca del Principe Spinelli di Tarsia, aperta al pubblico nel 1747.

[41]Michele Falco (Napoli 1690-1732ca.), come molti musici e musicisti del cenacolo di Donna Aurora Sanseverino, frequentò il conservatorio di Sant’Onofrio ove fu allievo di Nicola Fago (1702/14); come attore fu discepolo dell’Abate Andrea Belvedere. Assai giovane iniziò a comporre commedie musicali. Nella prefazione a La Cianna si legge:“Museca de chillo stisso ch’ha fatto la primma [Lo Lollo pisciaportelle] Chi ha puosto ‘n museca sta commeddeja e ‘no povere sorece ‘nfus’a ll’uoglio, [Michele de Falco] ‘no scuro prencepejante, e ‘no scolariello de chillo gra’ mastrone ch’ha fatto la primma e farra la terza; ed e uno ‘nzomma c’ha la varva piccerella, e perzo, essenno scarzo ancora de fonnamiento, mmereta d’essere compatuto, si non se vede a lle cose soje tutta la regola e tutta la mellonia che n’abbesogna” (Napoli, conservatorio / Storia Patria). E’ considerato uno dei padri dell’opera buffa. Alcune sue opere buffe: Lo Lollo pisciaportelle (lir. Nicola Orilia, NA, casa A. Paterno del Gesso, 1709), Le viecchie coffejate (dedica a l’Autezza Serenissima de la SegnoraPrencepessa Darmstat [sorella della nuora di Aurora Sanseverino] l. Antonio Tullio, t. Fiorentini, 1710) Di questa divertentissima opera vale la pena tracciarne il sunto: La scena è al Burgo de lo Rito (Borgo Loreto). Lello Scannasorece, spadaccino innamorato di Prizeta, e Pizio Cotugno, padrone di barca, innamorato di Lisa, vengono portando due scale, che appoggiano alle finestre delle loro belle. Le chiamano sottovoce; ed esse, già pronte, aprono e si provano a scendere. Ma vengono sorprese da Nando Cognola, vecchio stovigliaio, padre di Prizeta, e da Cesarone Spaviento, Capodiece (notabile popolano, la cui autorita aveva un certo rilievo nell’ambito del rione) de lo Burgo di lo Rito e padre di Lisa; i quali udendo rumore, sospettano di ladri. Gli innamorati fanno in tempo a togliere via le scale e svignarsela. I vecchi non vedendo nessuno, s’intrattengono a discorrere tra loro, raccomandandosi scambievolmente di trattar bene le giovani figliole, e scacciare i mosconi che le girassero intorno. Ciascuno dei due ambiva al tenero bocconcino, desiderando sposare la figlia dell’altro (e la stessa situazione del II atto de Lo Mbruoglio de li nomme; composta dallo stesso autore quattro anni dopo). Tali matrimoni, se piacciono ai vecchi babbi, non vanno a genio alla ragazze. Le quali si raccomandano al garzone Cianniello affinché mandi a vuoto lo sgradito disegno. Cianniello, come tutti i servi delle commedie antiche e come quasi tutti quelli delle commedie cinquecentesche, e valente nell’ordire trame, specialmente contro i vecchi.

Un suo primo trovato però, quello della fuga, ha avuto cattivo esito. Consiglia le giovanette d’opporsi alle pretese dei rispettivi padri; ed esse mettono esattamente in pratica questo consiglio. I vecchi vanno in furia, e, a loro volta chiedono aiuto a Cianniello. Ora si che costui può muovere i fili dell’azione a suo modo! Suggerisce alle ragazze di mutar politica, mostrandosi amorevoli coi vecchi. Benché a malincuore, esse vi si acconciano, non senza pero avvertire lo spettatore ad ogni pié sospinto che il loro vero pensiero e diverso. Lo Masiello (l. id. in casa di Mattia di Franco, carnev. 1712), Lo ‘mbruoglio d’ammore (l. Aniello Piscopo, NA t. Fiorentini 1717), Lo Castello saccheiato (l. Ciccio Viola, t. San Bartolomeo 1720), Le Pazzie d’ammore (l. Fr. Antonio Tullio, t. S. Bartolomeo 1723). Nel 1709 per il teatro di casa Domenico Francesco Celentano compose l’oratorio San Nicola Vescovo di Mira.

[42]Giampaolo di Domenico (Napoli 1680-1758) Attore, cantante, compositore: si definiva virtuoso di camera della Duchessa di Laurenzana. Come Michele Falco, è considerato uno zelante fautore della commedia in musica, genere di dramma che i posteri chiameranno Opera buffa. Dopo la morte di Aurora Sanseverino fece parte della compagnia filodrammatica del Barone di Liveri che operava prevalentemente per la Casa Reale. Carlo Borbone gli accordò una pensione come attore del Teatrino di corte. Delle sue opere buffe ricordiamo: Lisa pontegliosa (libr. Aniello Piscopo, Na t. Fiorentini,1719), Li Stravestimienti affortunate (Antonio Tullio, Na t. Fiorentini,1722), Lo schiavo p’ammore (1724). Agli sposi Pasquale Gaetani-Maria Maddalena di Croy Giampaolo di Domenico dedicò un arguto sonetto in vernacolo trascritto qui, di seguito: Via scumpitela mo co’ sti sonette / Nove state la capo a ‘nzallanire / Ca quanno cchiu decite, cchiu da dire / Ve restarria pe farele perfette. / Non vedite ca gia stammo a le strette / Volite fa le Zite ascevolire? (venir meno per desiderio o per tenerezze) / Sent’io dell’uno, e ll’auto li sospire / Che ‘nfra de lloro juocano a tressette. / Armo, o Puche d’Ammore, su ch’e notte / Iatevenne a dormire, e senza strille / Date de mano all’ammorose allotte: / Iate coll’ora bona, e mille, e mille / Dannove abbracce, e base, ‘nquatte botte / Faciteve ‘na morra de Nennille.

[43]Evidentemente Donna Aurora vuole prolungare al teatro dei Fiorentini di Napoli i festeggiamenti per le nozze di suo figlio Pasquale.

[44]Cristoforo Scoor, architetto cesareo, offrì la sua arte per l’allestimento di spettacoli di casa Gaetani-Sanseverino.

[45]Gaetano Borghi iniziò come virtuoso di camera della Duchessa di Laurenzana la sua luminosa e lunga carriera di cantante che lo vide protagonista nei più grandi teatri d’Europa.

[46]L’arte, l’erudizione, la celebrità, i meriti del mecenatismo di Donna Aurora Sanseverino oltrepassarono i confini d’Italia. Nel 1721 Venezia le tributò un magnifico omaggio teatrale: La Fede nei tradimenti …dramma per musica da recitarsi nel Teatro S. Angelo l’autunno dell’anno 1721 ded. a sua eccellenza Aurora Sanseverino, prencipessa della famiglia Gaetana, duchessa di Laurenzano. Libretto di Girolamo Gigli, musica di Carlo Luigi Pietragrua; Venezia, Marino Rossetti, 1721. […]. Virtuosi cantanti: Rosaura Mazzanti, contralto (Angailda), Antonia Pellizzari, soprano (Elvira), Giovanni Papaccioli, soprano (Fernando), Michele Salvatici, tenore (Garzia).

Anche i Fardella di Sicilia coltivarono interessi per l’opera in musica: riproduciamo, qui di seguito, il frontespizio di un dramma sacro dedicato a D. Michele Martino Fardella: L’Aquila oratrice; dell’invittissima e fidelissima città di Trapani per la sovrana della gran Regina de’ Cieli. Dialogo a cinque voci del signor don Vincenzo Giattini posto in musica dal signor Giuseppe Lutio mestro di cappella del convento di Nostra signora del Carmine da cantarsi nel medemo per la solennità di Maria Vergine sotto il titolo del Carmelo, consacrato all’illustrissimo signore D. Michele Martino Fardella Trapani Minore, baronello della Moharta e signore successore di Giligaleph etc., 1685. Gioacchino Bona e Fardella fu librettista di vaglia: nel 1702 compose: 1) Tritolemo escluso dall’immortalità, serenata a tre voci dedicata al Sig. D. Cristofaro Massa e Galletti, duca di Castel di Iaci […] per la nascita della Sig. Donna Giuseppa Massa e La Farina sua figlia, Palermo, 1702; 2) I Contrapposti in guerra nella Sacra Notte della Pace, oratorio da cantarsi nella congregazione de’ Nobili sotto il titolo della SS. Annunziata nella Casa Professa de’ PP. della Compagnia di Gesù per la sposizione del SS. Sacramento nel Triduo del Santo Natale l’anno 1705. personaggi: Angelo, Armonia, Silenzio, Luce, Ombra, Coro; 3) Il Convito di Batuele per lo sposalizio di Rebecca, oratorio da cantarsi per la Venerabile Compagnia del SS. Sacramento nella chiesa parrocchiale di S. Croce, per la sposizione eucaristica delle 40 circolare della città. Dedicato all’eccellentissimo signore D. Giuseppe del Bosco, Sandoval, Isfar e Corlles…Napole, Giuseppe Rosselli, 1706. Dedica dei rettori Baldassarre S. Filippo, Mamiliano del Bone e Antonio Bonelli.

[47]Segnaliamo alcuni discendenti dei coniugi Carlo Sanseverino Principe di Bisignano e Maria Fardella che, con forme ed interventi diversificati, hanno onorato l’opera in musica: Carlo Sanseverino Principe di Bisignano e Maria Fardella generarono: Giuseppe Leopoldo, Luigi, Gian Francesco, Lilla e Aurora; Nel 1682: Aurora sposa Girolamo Acquaviva, conte di Conversano. Nel 1686 Aurora sp. in seconde nozze, Nicola Gaetani d’Aragona, duca di Laurenzana. Aurora e Nicola hanno tre figli: Cecilia, Pasquale e Tommaso, Cecilia nel 1707 sposa Antonio di Sangro, dai quali, nel 1711 nasce Raimondo mentre Pasquale nel 1711 sposa Maria Maddalena di Croy. Il Conte Tommaso sposa Guglielmina de Merode, contessa di Groesbeck. Tommaso e Guglielmina vivono in Belgio: la loro figlia Carlotta, tredicenne, nel 1732 sposa il cugino Raimondo (in virtù del Fedecommesso di Paolo di Sangro jr del 10 maggio 1626), figlio di Antonio e Cecilia. Raimondo e Carlotta hanno cinque figli: Vincenzo, Paolo, Gianfrancesco, Carlotta, Rosalia (sposa di Fabrizio Capece Minutolo). Rosalia e Fabrizio Capece Minutolo generarono Teresa (sp. Scipione Cicala), Carlotta (sp. Marchese di Lizzano), Maddalena (marchesa di Casale di Siracusa), il Principe di Canosa Antonio (famoso per la Lettera contro Pietro Colletta) che, in prime nozze sp. Teresa Galluccio e Raimondo che si unì in matrimonio con Matilde Galvez, marchesa della Sonora, di origine messicana; Raimondo e Matilde generarono Paolina (Vienna 1803), Adelaide (Napoli? 1805) e Clotilde (Palermo 1808), tutte e tre note musiciste dilettanti; Paolina si unì in matrimonio con Francesco del Balzo, col quale generò l’eminente musicofilo Ernesto conte di Galvez. Fra i virtuosi di camera della Duchessa Laurenzano citiamo Rosa Cerillo, Maddalena Conti, Teresa Sellitto, Gaetano Borghi, Giovan Battista Cavana. Per una bibliografia generale si veda anche AA. VV. 1716; Bergalli 1726.