Aurora Sanseverino
mecenate: suo contributo allo sviluppo
dell’Opera in Scuola
Napoletana
di Pietro
ANDRISANI
Estratto da: Fardella 1704 – 2004. Tracce di
storia
Atti della Giornata di Studio /
Fardella 6 Agosto 2004
a cura di Antonio Appella e
Antonietta Latronico
Associazione Culturale ONLUS “
Due Principesse lucane protettrici
della musica.
Tra il 1680 ed il 1730 il
mecenatismo di due principesse, di origine lucana, ha dato un valido contributo
all’evoluzione del dramma in musica di scuola napoletana: in ordine di tempo,
la prima è stata Eleonora de Cardenas, moglie di Domenico Carafa, principe di
Colobraro[1]; l’altra Aurora Sanseverino, figlia di
Carlo Maria, principe di Bisignano e di Anna Maria Fardella. Eleonora,
unitamente ai cugini Carafa della Stadera, duchi di Maddaloni, si rese
partecipe del trasferimento del Maestro Alessandro Scarlatti da Roma a Napoli[2]. Questa operazione portava alla Scuola musicale partenopea
nuova linfa e vigore, le faceva assumere una fisionomia più determinata,
superare i confini di un certo provincialismo e la inseriva nel movimento
musicale di interesse universale[3].
Aurora, dopo il suo matrimonio con
Nicolò Gaetani dell’Aquila d’Aragona, fa della sua casa di Napoli e del palazzo
ducale di Piedimonte d’Alife, cenacoli di letterati, poeti, pittori,
architetti, scenografi, musici e musicisti. Qui si veniva a creare un giovèvole
clima di mutuo soccorso artistico dove ognuno arricchiva, agevolmente, il suo
bagaglio culturale offrendo il proprio contributo all’allestimento di drammi e
feste musicali nei due teatri domestici padronali e, all’occorrenza, in quelli
della capitale: il San Giovanni dei Fiorentini ed il Nuovo a Montecalvario.
Non fu un caso se la de Cardenas
fino al 1691, anno della sua immatura morte, tenne a battesimo i figli dei
coniugi Alessandro Scarlatti e Antonia Anzalone nati a Napoli, dando il nome di
Domenico al primo, in onore di suo marito, principe di Colobraro, e quello suo,
cioè di Eleonora, alla prima femmina.
La musica napoletana allora, come
se avesse voluto stabilire il vincolo del comparatico di San Giovanni fra le
due Principesse lucane, dispose che l’altro figlio della coppia Scarlatti-Anzalone
nato nel ’92, fosse tenuto al fonte battesimale dalla Sanseverino[4].
Saponara
Donna Aurora nacque nella opulenta
città di Saponara il 28 aprile del 1669, ove ebbe i primi rudimenti di
letteratura e di educazione musicale dai suoi istitutori e dai propri genitori.
Uno scorcio di quella Saponara ce lo presenta un protetto del Principe Carlo
Maria, l’Abate Bonifacio Petrone, detto Pecorone[5], musico
della Real Cappella di Napoli e di quella del Tesoro di San Gennaro: il Petrone
anche lui nato in quella ricca città (2 aprile del 1679), pubblica queste note
nel 1729.
“
Nella Saponara poi moderna evvi il
Palaggio Magnifico, e quasi Reale del Felicissimo Signor Principe di Bisignano
Padrone, rifatto dalla felice memoria del Principe Carlo, avo dell’odierno
Principe Luigi della gloriosa stirpe Sanseverini: imperocchè in esso sono
appartamenti superbi, e con singolar simetria, ed architettura composti, e
ripartiti; evvi l’appartamento appellato del Principe (Carlo Maria), evvi
quello della Principessa (Anna Maria Fardella), il terzo di D. Aurora, il
quarto di D. Lilla, oltre il gran comodo della servitù alta, e bassa. Tutto
interamente poi è magnificamente, e nobilmente mobiliato, ed a maraviglia
ornato, che puossi dalla stalla sola, e dalla scuderia argomentar il resto:
imperocchè in essa è luogo di 122 cavalli, e le mangiatoie ornate di 122
specchi di Venezia con cornici dorate riccamente, e tutto il rimanente a
proporzione superbamente disposto: ed a capo della medesima stalla è collocata
una statua di marmo di rara bellezza, ritrovata tra le ruine di Grumento, e che
dicono di dea di Gentili di quei tempi[6]”.
Residenza napoletana dei
Sanseverino di Bisignano… e qualche ciancia.
La residenza napoletana della
famiglia dei Principe Sanseverino-Fardella allora era nel quartiere di Chiaia,
a capo dell’odierna via Bisignano[7] e ad equa distanza tra
la lo spasso di Posillipo e lo struscio di via Toledo. Giuseppe di Blasiis, in
Frammento d’un Diario […] del gennaio 1673 racconta come da questo palazzo
Donna Maria Fardella, Principessa Bisignano [,] esce per Napoli in sedia
attorniata da otto paggi e Cavallerizzo a cavallo, una Carrozza apresso con quattro cavalli per le Damigelle
e due altre per gli gentil’huomini suoi Corteggiani a due cavalli l’una e più
staffieri avanti la sedia.
Il palazzo costruito dal principe
Pietro Antonio verso la metà del ‘500, con pietre di piperno, pietre dolci e
marmi pregiati era riccamente arredato da mobili, quadri, sete, collezioni di
gioie; da un lato confinava
con un giardino con molte piante esotiche, dall’altro da un recintato e locali
che ospitavano animali feroci addomesticati.
Un diarista riferisce che “Il
Principe [Tiberio Carafa, principe di Bisignano] nudriva in questa casa [del
rione Chiaia] molti leoni, ed ebbe la fortuna di vederli propagati, cosa non
ancora succeduta nell’Italia; ne aveva tra questi uno cicorato, di tanta
mansuetudine, che dormiva nella stessa camera dove il principe dormiva; andava
col principe in barca ed in carrozza…” Lasciato dal principe in un’osteria,
durante un viaggio, il leone si buttò dalla finestra, “ma perché l’oste
l’aveva legato per la gola in un traverso di detta finestra, restando sospeso
morì. Il principe di Bisignano – continua il diarista – nel parco attiguo
il palazzo aveva creato un giardino zoologico, e spesso si dilettava ad
organizzare degli spettacoli un po’ stravaganti, fra cui la lotta del cavallo
con la tigre”[8].
I coniugi Carlo Maria Sanseverino e
Anna Maria Fardella ebbero pieni poteri del palazzo dopo la morte del vecchio
zio Carlo[9] avvenuta il 18 agosto del 1670. L’anno
prima, lo zio Carlo, a sua volta, era succeduto al proprio fratello Luigi[10], morto anche lui molto vecchio. Il nuovo Principe di
Bisignano “esercitò lo stile de’ suoi antenati di non far camerata con nullo
cavaliere e porta li suoi staffieri avanti la carrozza”. I principi di
Bisignano Carlo Maria e Donna Anna Maria Fardella formavano una di quelle
coppie soccorrevoli, generose, prodigali ma che in certe situazioni non si
fanno passare la mosca sotto il naso, sapeva come togliersi la classica
pietruzza dalla scarpuzza.
Accadde che nel giugno del 1702 si
celebrarono le nozze del rampollo Giuseppe Leopoldo con la giovanissima[11] figlia di Nicola e Giovana Pignatelli dei duchi di
Monteleone, potente famiglia spagnola che si vantò di aver donato alla sposa
100.000 ducati, dote d’un valore superiore a quella portata dalla famiglia del
fresco genero. Quei Pignatelli facevano parte dell’ultimo nucleo di Spagnoli
vanagloriosi operanti a Napoli che ostentavano il peso della propria grandigia
sui loro omologhi napoletani. Questa superbia infastidì i loro novelli consuoceri[12]. Antonio Bulifon da quel ficcanaso che era così sintetizzò
l’increscioso accaduto sul suo avviso del 25 ottobre 1702: “Ma dopo che fu
accasato il giovine con la signorina spagnuola, il Principe di Bisignano padre
e
Dopo questa colorita digressione ci
riconduciamo ai principi Carlo Sanseverino e Maria Fardella, i quali, per detta
di Costantino Gatti, storico sincrono, avevano nella loro casa i più “insigni
maestri nel canto e nel suono”; il principe “dilettossi grandemente della
musica, in cui non era inferiore ai più provetti[14]”.
Quando nella prole della loro servitù notavano giovani talenti incoraggiavano loro
a coltivare le proprie attitudini.
Un protetto del
Principe Carlo: Bonifacio Pecorone.
Nel 1693, don Carlo Maria, dopo
aver considerato la manifesta vocazione per la musica nel quattordicenne
chierichetto Bonifacio Petrone, figlio del suo vassallo Francesco e di Porzia
Petitto, lo fece accompagnare a Napoli e l’ospitò nella propria casa del
quartiere Chiaia. Dopo sei mesi di ambientazione nella grande città, lo
iscrisse al conservatorio di Sant’Onofrio a Porta Capuana ove il Consigliere
Delegato era Amato Danio, anche lui di Saponara. In questo istituto il Petrone
vi rimase otto anni ed ebbe a maestro di canto figurato il siciliano don
Cataldo Amodeo[15]. Di tanto in tanto, il principe vigilava
i progressi del suo protetto ascoltandolo cantare ed impartendogli edificanti
consigli.
Nel 1702 il giovane cantante,
unitamente ad altri professori di musica, segue il principe Carlo nei suoi
feudi calabro-lucani. Qui il Sanseverino, due volte la settimana invitava i
suoi vassalli ai concerti nei quali Bonifacio eseguiva dilettevoli cantate. In
particolar modo il principe gradiva una in lingua napoletana dal titolo A
buje parlo, a buje dico[16] posta in musica dal canonico, don Carlo
Ferro[17] di Saponara. Per il principe questa
cantata “sembrava la più propria per ogni stato, sì che ad ognuno giovasse di
diletto, ed anche d’insegnamento”.
L’Abate Pecorone, con la sua seria
professione di cantante seppe onorare ampiamente la munificenza elargitagli
dalla famiglia Sanseverino-Fardella. Egli si distinse, come basso, nella
Cappella Reale ed in quella del Tesoro di San Gennaro; cantò da protagonista in
ragguardevoli drammi sacri per musica rappresentati nel conservatorio della
Pietà dei Turchini e dedicati ai vicerè e alle viceregine di turno. Ricordiamo
I matrimoni e alcuni
biografi di D. Aurora.
Ai primi di gennaio del 1682, ancora
tredicenne, essa sposa Girolamo Acquaviva, conte di Conversano il quale la
notte seguente il giorno del matrimonio sembra termini i suoi giorni terreni;
ciò avvenne nel castello di Amendolara, feudo calabro dei Sanseverino.
Due anni dopo Donna Aurora entra a
far parte dell’Arcadia di Roma ove ebbe a maestro il canonico Giovan Mario
Crescimbeni, padre della medesima Accademia. In seguito diventa Lucinda
Coritesia nella Accademia degli Spensierati di Rossano, capeggiata da
Giacinto Gimma, uno dei suoi più attenti biografi. In questa Accademia Donna
Aurora ebbe compagni e maestri uomini di elevatissima cultura quali Baldassarre
Pisani[18] e Andrea Perrucci Fardella[19], censore promotoriale degli stessi Spensierati.
Il Gimma nei suoi Elogi accademici
degli Spensierati di Rossano osserva che D. Aurora Sanseverino “[…] fa
risplendere l’inclinazione grande alla Musica, ed alla Poesia e amendue […]
riconoscendo per maestra
Quindi, s’è Nobil, Bella, e
Maestosa,
Solo al Mondo ammirabil la rende
L’aver Grand Alma, ed esser
Virtuosa.
Da Le Vite de’ Pittori di
Bernardo de Dominici (IV vol. pg 431) sappiamo che Francesco Solimena, intorno
al 1720, per omaggio al di lei nome e per dare un saggio della stima ch’ei
faceva di sua virtuosa persona poiché molto pregiavasi della buona amicizia di
quella gran dama, che era l’oggetto di tutti gli uomini scienzati, e dell’amore
del pubblico dipinse un un quadro che intitolò l’Aurora.
Giuseppe Antonio Avitrano, Virtuoso
di Camera di Casa Reale, denominò Aurora la prima delle dodici Sonate a 4
opera III (1713) che dedicò a Marzio Pacecco Carafa duca di Maddaloni[20].
Nella primavera del 1686[21] Donna Aurora impalma Nicolo Gaetani dell’Aquila d’Aragona,
uomo d’arme, di profonda erudizione umanistica e, come alcuni studiosi
blasonati napoletani di quella Napoli, interessato a lavori di latomie.
In occasione di queste nozze, il
principe Carlo, padre di lei, musicista dilettante, nel senso che coltivava
quest’arte per diletto, e, come gia sopra accennato, “Aveva […] presso di se
[…] maestri insigni nel canto e nel suono”, compone, L’Elidoro[22], dramma per musica del quale ci e rimasto solo il ricordo.
Invece troviamo tangibile testimonianza dell’evento in un ben elaborato lavoro
poetico del Priore carmelitano Carlo Sernicola. Il fulcro centrale del volume
comprende cinquanta sonetti: venticinque dedicati alla sposa, gli altri al
consorte. Il titolo: Ossequi poetici al merito impareggiabile degli
eccellentissimi sposi, Donna Aurora Sanseverino dei Principi di Bisognano e Don
Nicolo Gaetani d’Aragona dei Duchi di Laurenzana.
Domenico Confuorto, nel suo
giornale del 19 maggio annunzia che Sono venuti in Napoli da Piedimonte
d’Alife il sig D. Nicola Gaetani figlio primogenito del Duca di Laurenzana (…)
e la bellissima, gentile e briosa Sig.ra Aurora Sanseverino, figlia del Sig.r Principe
di Bisignano e vedova del Sig.r D. Geronimo Acquaviva Conte di Conversano, ivi
venuti da Calabria, ove si erano sposati nella terra di Saponara et abitano
nella Casa delli SS.ri Gaetani a Port’Alba. Per un anno circa gli sposi
Gaetani-Sanseverino furono ospiti del duca di Laurenzana padre; in seguito si
trasferirono nel proprio palazzo alla Riviera di Chiaia, sito poco distante
dalla monumentale casa del Principe di Bisignano. In questa corte oltre che nel
palazzo ducale di Piedimonte, donna Aurora, con rinnovato entusiasmo, riprese
la cara quanto proficua conversazione con le Muse.
Un invito a rivisitare la poesia e l’arte di
casa Gaetani-Sanseverino.
Con meritoria azione di munifici
mecenati i freschi sposi, nelle due dimore, ospitarono artisti, letterati e
musicisti che hanno lasciato in musei, archivi, biblioteche pubbliche e private
opere di elevato valore documentario ed artistico, alcune delle quali sono gia
state oggetto di studio, altre attendono la diligente rivisitazione dello
storico.
A tale proposito desidero citare
due lussuose pubblicazioni di largo respiro e di generale interesse culturale e
artistico:
Il titolo esatto della prima e Lo
Tasso Napolitano zoè
La dedica (con data: Oje li 14
de lo mese stroppejato dell’Anno 1706) e dell’editore Michele Luigi Muzio.
Il volume e corredato da un angiporta raffiguranti il Sebeto[25], le
sirene, i delfini, il Parnaso napoletano[26]. Ad ogni
capilettera e premessa una tavola che ripropone significative allegorie e
illustrazioni del castello di Piedimonte. I disegni, in massima parte, sono
opera di Giacomo del Po[27], artista gentiluomo di casa
Gaetani-Sanseverino.
Bernardo de Dominici (Le Vite
de’ Pittori, Napoli, ed. 1840, vol. III, p. 365) parlando delle residenze
dei coniugi Gaetani-Sanseverino ci informa di case riccamente affrescate e
dotate di quadri dipinti da celebri pittori, alcuni dei quali erano o erano
stati ospiti di quei principi. Inoltre ci informa che, nei convegni
magnifici, D. Nicolo e D. Aurora ponevano nel mezzo della gran tavola
per recar meraviglia, e diletto ai convitati una concettosa saliera
d’argento alta più di cinque palmi, disegnata da Luca Giordano e realizzata da
Gian Domenico Vinacci. Nel basso avea figurato le quattro parti del mondo,
con i loro maggiori fiumi, o vogliam dire i piu rinomati; piu sopra similmente
in giro eran situate le quattro Ore del giorno, coi loro significati, fra’
quali bellissima e la figura della Notte, con l’immagine del Sonno; sopra
vedesi il Tempo, figurato in Saturno, che con la falce cercava distruggere le
belle opre terrene, ma veniva impedito, o placato dalla Gloria, e
dall’Immortalita, che additagli un Tempio lucido dell’Eternita, situato alla
cima della Saliera; alla qual veduta placato Saturno si fermava. Oltre che
recar meraviglia, e diletto ai convitati la scultura doveva rappresentare
un eloquente cartello di intenti in chiave di aperta simbologia gareggiante con
le scenografie del melodramma eroico del tempo affollate di allegoriche gemmate
dalla esuberante mitologia ellenica; ma soprattutto la preziosa scultura doveva
riprodurre una sorta di ara laica, un virtuale contenitore dal quale si poteva
attingere il sale della terra.
Il nucleo di eruditi gentiluomini
che ornava i cenacoli di quella munifica casa, alcuni dei quali erano
interessati in particolar modo alle scienze matematiche e all’astronomia, nella
vita comune d’ogni giorno esercitava la professione di giudice, di avvocato, di
notaio; la categoria dei pittori, scultori, architetti, cantanti, musici vi
esercitava la propria professione ma, all’occorrenza, col permesso di donna
Aurora, esprimeva il proprio ingegno presso altre insigne famiglie del
patriziato napoletano ed estero.
Aurora Sanseverino e Nicola Gaetani
tennero nelle proprie dimore imponenti cenacoli letterari e ludici ma, spesso,
furono presenti nella vita mondana della città e dei suoi casali, dei teatri
pubblici soprattutto del San Bartolomeo, tempio del melodramma eroico, nel
quale vi occupavano un posto di prestigio: un intero palco in seconda fila
situato fra quello dei Principi Colubrano e i tre centrali di casa reale.
Le origini dell’opera buffa.
Il primo decennio di vita
matrimoniale della coppia coincide con un periodo in cui stava maturando una
storica evoluzione culturale riguardante forme e contenuti del teatro musicale
napoletano. Durante la seconda meta del Seicento l’incalzante interesse per il
crescente lusso del macchinoso melodramma sacro e profano aveva, gradualmente,
ottenebrato gran parte delle molteplici seduzioni dei pubblici svaghi di corte,
perciò, agli albori del secolo successivo, l’aristocrazia, l’alto clero e gli
operatori del ramo avvertono l’irresistibile necessità di respirare un’aria
canora più leggera, quella degli spettacoli musicali concreti e scintillanti.
In opposizione all’arabescato e
slombato melodramma, affollato di complesse simbologie, di memorabili
personaggi del Vecchio Testamento e dell’antica storia persiana, egiziana e
greco-romana interpretati dagli impettiti e superpagati sopranisti, sorgono
vibranti tre nuovi generi di dramma musicale:
Per la varietà delle sue forme
flessuose, armonicamente articolate, per l’evocazione di eroi leggendari, nei
quali, spesso, la nobiltà identificava un proprio rampollo,
A differenza dell’Intermezzo che
vive tra un atto e l’altro del melodramma eroico, l’opera buffa e una commedia
musicale con soggetto essenzialmente autonomo. Come un arguto articolo di
cronaca a carattere popolaresco, redatto con linguaggio fruibile da ogni umano
intelletto, l’opera buffa fotografa con la lente un po’ deformata un pungente
umorismo dei reali avvenimenti della vita di ogni giorno. La scenografia
disegna una piazza, un sobborgo, una locanda che hanno per sfondo la marina, il
golfo, i poggi verdeggianti, il Vesuvio. Sulla scena, fra amorazzi, giochi
degli equivoci, travestimenti e agnizioni scontate, si aggirano vagheggini
azzimati, servette maliziose, soldatini innamorati, ruffiani petulanti e
squallidi, mercanti turchi veraci e falsi a caccia di galanti avventure, vecchi
babbei infatuati di verginelle sistematicamente gabbati, fantesche e
schiavoncelli che, sul finire dello spettacolo, implacabilmente si rivelavano
di nobile schiatta. Qui tutto palpita all’unisono con il cuore di Napoli,
I’ songo scura comme a le vviole;
Ma songo bella comme a le ccollane
E ll’oro de lo mante, e de le
stole,
A vendegna ppe vvuje tengo le mmane
Chiene de calle e so’ colta a lo
Sole:
A fatica pe vvuje, pe’ vve da pane,
So ffatta nera mo’, ma de natura
So’ janca comme a latte e non già
scura[33].
Naturalmente, l’opera buffa non
nasce dal nulla. Negli ultimi decenni del XVII secolo e nei primissimi anni del
successivo, nelle Accademie dei mecenati, nelle sedi delle più cospicue
Congregazioni, negli sfavillanti monasteri di monache era di moda rappresentare
commedie e scherzi drammatici con musica e personaggi che si esprimevano
in vernacolo e, soprattutto, venivano eseguite cantate da camera quasi sempre
in lingua napoletana nelle quali si respirava già aria di opera buffa[34].
In opposizione al melodramma che
voleva sulla scena soprani evirati vestiti da eroi dell’antichità e da profeti
del Vecchio Testamento, l’opera buffa veniva interpretata da cantanti
con voce naturale anche se nei stravestimenti il basso, a volte,
impersonava una vecchia signora petulante ed il soprano un personaggio maschile.
I soprani castrati non indossarono mai le vesti degli eroi nei melodrammi del
teatro domestico di Piedimonte tranne nel
Oltre ad eminenti professionisti
del ramo, nella messinscena dell’opera buffa trovano giusta collocazione,
poeti, musicisti, cantanti e strumentisti della nobiltà come Don Carlo
Pacecco-Carafa dei duchi di Maddaloni, Donna Clelia Caracciolo dei duchi
d’Arena e, naturalmente, la principessa donna Aurora Sanseverino.
All’inizio, l’opera buffa, ovvero,
la commedeja pe’ museca, viene composta per i teatri domestici. In senso
assoluto, la prima che la storia ricordi e
Sempre nel 1707, nel palazzo ducale
di Piedimonte d’Alife alla presenza del fior fiore della nobiltà napoletana,
dell’alto clero, degli insigni cattedratici e della corte vicereale, vengono
celebrate le nozze di Cecilia, figlia dei coniugi Gaetani-Sanseverino, con
Antonio di Sangro. Gli sposi sono i futuri genitori dello scienziato Raimondo,
principe di Sansevero[38].
I festeggiamenti per celebrazioni
del genere duravano un mese circa: di solito cominciavano con la messinscena di
un dramma eroico per musica e terminavano con la rappresentazione di una
serenata o di una favola pastorale. Durante questo mese venivano eseguite cantate
in lingua ed in dialetto per voce con accompagnamento di basso continuo.
A testimoniare le presenze musicali
di questo evento, purtroppo ci resta solo il libretto dell’opera Il Radamisto.
La didascalia recita: “Dramma per musica fatto rappresentare nel teatro
di Piedimonte da Donna Aurora Sanseverino e Don Nicola Gaetani d’Aragona duca
di Laurenzano in occasione degli sponsali dell’eccellentissimo sig. D. Antonio
di Sangro […] con l’eccellentissima signora donna Cecilia Gaetani d’Aragona […]
e ai medesimi dedicato dall’Abate Nicola Giuvo.[…] musica di Nicola Fago, detto
il Tarantino”[39]. Ad interpretare l’opera oltre a Chiara
Fuga e Domenico Tempesti, virtuosi di camera della duchessa di Laurenzana, furono chiamati cantanti che allora
andavano per la maggiore nei teatri di corte napoletani ed esteri come Anna
Maria Marchesini, virtuosa del cardinale de Medici, Ludovica Petri, virtuosa
del duca di Mantova.
Nell’autunno del 1711, nello stesso
palazzo ducale, si celebrano le nozze del primo figlio maschio di Aurora e di
Nicola Gaetani, Pasquale, il quale convola a nozze con la principessa Maria
Maddalena Darmstadt di Croy, figlia del
comandante in capo delle truppe austriache a Napoli. L’avvenimento si svolse in
un clima festoso dai toni elevatissimi.
Vennero rappresentati il melodramma
Nello stesso periodo, infatti, ci
risulta che Michele Falco compose la musica per la commedia
La commedia, probabilmente era
stata rappresentata a Piedimonte ed anche in qualche altro teatro di palazzo
delle famiglie Darmstadt o Sanseverino, sempre per esigenza artistica modificata,
accorciata con parti soppresse per cui quando giunse al teatro dei Fiorentini
ancora rimpicciolita per necessità fece dire al librettista: De
Iatevenne a dormire, e senza
strille
Date de mano all’ammorose allotte:
Iate coll’ora bona, e mille, e
mille
Dannove abbracce, e base, ‘nquatte
botte
Faciteve ‘na morra de Nennille.
Per poter curare agevolmente la
gran mole di pubblicazioni a stampa occorrenti a tale evento Aurora e Nicola
Gaetani chiesero e ottennero che la real tipografia di Michele Luigi Muzio da
Napoli fosse portata a Piedimonte.
Si festeggia la nascita di Leopoldo, imperatore mancato.
Sempre a Piedimonte nei nei giorni
20, 21 e 23 maggio del 1716, per la felicissima nascita del serenissimo
Leopoldo, arciduca d’Austria, Nicola Gaetani e Aurora Sanseverino fecero comporre
e rappresentare
Don Antonio Manna, virtuoso
dell’Imperatore, interpreto la parte del dio Giove.
Per tale evento, ancora una volta,
il palazzo ducale di Piedimonte ospita eminenti artisti e letterati, l’alto
clero, la nobiltà locale e forestiera, la corte vicerale. Per il regale evento
Donna Aurora compose e declamò un superbo carme in latino: L’Ypatio Paladino
(ac Dynastis Neapolitani Regni Augustissimi LEOPOLDI archiducis), nel quale
ella celebra la gloriosa dinastia degli Asburgo e la nascita del novello
Alcide. L’arte, l’erudizione, la celebrità di Aurora Sanseverino Fardella non
nasce dal niente ma è il frutto sapienziale di una lunga tradizione culturale
di due grandi famiglie che avevano già vissuto seicento anni di storia gloriosa[46]. Nel 1730, quando essa muore questa tradizione viene onorata
da numerose generazioni di suoi eredi; vale per tanti l’opera ingegnosa del
Principe Raimondo di Sangro, universalmente conosciuto come il padre della
storica Cappella Sansevero di Napoli visitata ogni giorno da curiosi
turisti italiani ed esteri[47].
[1]Eleonora (Pisticci? 1657-Napoli,
1691), figlia di Alfonso IV de Càrdenas, conte di Acerra e di Faustina Carafa
Principessa di Colobraro, nel 1670 andò sposa a Domenico Carafa, V° principe di
Colobraro.
Nel loro lussuoso palazzo fu sempre di casa
La sua prematura morte, avvenuta il 13 settembre del 1691,
fu compianta dalla Napoli artistica e più umana; il corteo funebre venne
accompagnato da cento monaci Zoccolanti, dal Capitolo napoletano composto da
trenta canonici, ventidue eddomadari, diciotto cappellani, settantacinque
seminaristi. La coltre di lana d’oro fu portata dagli pezzenti di San Gennaro,
ed altri seguivano il cadavere, che fu portato scoperto, vestita da monaca
domenicana (Antinio Bulifon Diario del 13/9/1691). Come alcuni altri
de Càrdenas di quel secolo, anche Eleonora de Càrdenas potrebbe essere nata a
Pisticci, allora feudo dei conti di Acerra. Domenico, suo marito, era figlio di
Dionora (Eleonora) Carafa, principessa di Colobrano e di quel Giuseppe Carafa
di Maddaloni che nel 1647, i seguaci di Masaniello gli staccarono la testa per
porla in una gabbia e appenderla sotto l’arco della Porta San Gennaro al
ludibrio del popolo napoletano.
[2]Alessandro Scarlatti (Palermo
1660-Napoli 1725). Giovanissimo, unitamente ad alcuni suoi familiari, si
trasferì a Roma ove, secondo una tradizione non documentata, prese lezioni di
musica anche da Giacomo Carissimi (1605-1674). A Roma, diciottenne, entrò al
servizio della regina Cristina di Svezia; nel 1679 venne messa in scena la sua
opera Gli equivoci nel sembiante (Una copia della Partitura de Gli
equivoci…fu portata a Napoli e messa in scena nel teatrino domestico dei
Maddaloni).
Alla rappresentazione furono presenti i Carafa duchi di
Maddaloni e i principi di Colobrano, Domenico ed Eleonora, che tanta parte
ebbero nella elaborata trattazione per il trasferimento dello Scarlatti da Roma
a Napoli. E’ universalmente risaputo che il compositore siciliano nella città
di Sebeto e di Partenope diverrà presto un caposcuola.
[3]La presente relazione è il prosieguo
di un mio saggio critico ad un lavoro di Ulisse Prota Giurleo (Napoli 1886
Perugia 1966) I Teatri di Napoli del secolo XVII pubblicato postumo a
Napoli da Il Quartiere di Ponticelli, 2002.
[4]Compare di battesimo fu Ferrante
Caracciolo, duca d’Airola.
[5]L’Abate Bonifacio Petrone, detto
Pecorone (Saponara, Pz 1679 - Napoli 1734). Il cognome Pecorone fu assunto dal
suo bisavolo Laverio che per persecuzione fuggiasco ebbe per ben di cangiar
l’antico cognome della Fameglia Petrone nell’anzidetto Pecorone, come registra
un istrumento del notaio Giambatista Padule di Saponara: Conventione facta
inter Onoratum de Cioffo, et Laverium Petrone, dicto à vulgo Laverium
Pecoronem… Bonifacio Pecorone studiò canto nei conservatori napoletani di
Sant’Onofrio (1693-1701) e di Santa Maria di Loreto (1704-07). Nel 1717, su
raccomandazione di Alessandro Scarlatti, venne assunto, in qualità di basso,
nella Cappella Reale e, nel ’27, anche in quella del Tesoro di San Gennaro.
L’Abate Pecorone cantò nei più ricchi conventi della capitale soprattutto in
quello della Trinità Maggiore dei PP. Gesuiti; fu personaggio protagonista in
vari drammi sacri per musica dei quali ricordiamo Santa Maria Siriaca; Il
Trionfo di Sant’Alessio, Il Martirio di Santa Caterina Vergine d’Alessandria
(in quest’opera l’Abate Pecorone impersonò la parte dell’Imperatore indossando
un vestito ricamato, cioè corazza, girella, manto, corona di lauro, stivaletti
e coturni di gioie, inoltre: una giamberga di Sames di oro, gallonata d’argento
con giamberghino finto e calzone differente, con cappello e pennacchiera), Santa
Elisabetta d’Ungheria, etc. Fece parte della Congregazione dei musici di
cui, nel ’23 ne fu governatore. Nel 1729 l’Abate Pecorone pubblica le sue
Memorie (Napoli, tip. Angelo Vocola, 1729) nelle quali vi è uno spaccato della
Saponara sanseverina (reliquia dell’antica Grumento) e della vita artistica e
sociale napoletana coeva. Interessanti sono le sue osservazioni quando fa
notare la differenza del prezzo del pane tra Saponara (1 rotolo 3 tornesi: 1
gana e mezzo) e la vicina Battipaglia (1 rot. 4 grana: la bellezza di 8
tornesi). Bonifacio Petrone morì a Napoli nel 1734, aveva 54 anni.
[6]Abate Pecorone: Memorie, Napoli,
tip. Angelo Vocola, 1729, p. 7.
[7]Uno dei primi palazzi napoletani dei
Sanseverino principi di Bisignano era in via Spaccanapoli nel quale Carlo V°,
nel 1535, di ritorno da Tunisi, fu ospite per un mese circa e, nel secolo
scorso è stata la casa di Benedetto Croce. Giuseppe Coniglio (I vicerè di
Napoli, Napoli, ed. Fiorentino, 1967, p.51) sostiene che Carlo V ritornava
dalla spedizione contro Tunisi e per invito di Ferrante Sanseverino principe di
Salerno, di Pietro Antonio Sanseverino principe di Bisignano e di Alfonso
d’Avalos marchese del Vasto, aveva deciso di visitare il Regno di Napoli.
Sbarcò a Reggio Calabria ove fu ospitato dal Bisignano, di là si recò presso il
principe di Salerno ed il 25 dicembre del 1535 fece a Napoli il suo ingresso
[…]. Verso la metà del XVI secolo i Sanseverino costruirono l’imponente palazzo
di Chiaia (un istrumento del 6 maggio del 1548 riprodotto da Fabio Colonna
di Stigliano in Napoli nobilissima, vol. XIII, p. 70, afferma che tal
Ferdinando Criscio di Napoli si obbligava a tagliare dalla cava di pietre dolci
appartenente al Principe il materiale occorrente alla costruzione del palazzo
che questi stava innalzando nel Borgo di Chiaia). Agli inizi della seconda
metà del ‘600 Luigi e Carlo Maria Sanseverino permutarono il palazzo sito tra
via Toledo e via della Quercia con una sontuosa villa del casale di Barra del
ricco mercante di Anversa, Gaspare Romer.
[8]Dopo la morte di Nicolò Bernardino
Sanseverino di Bisignano avvenuta il 22 settembre del 1606, sembrava che si
fosse estinta la nobilissima ed antichissima famiglia. Gli successe come parente
più prossimo Donna Giulia Orsini, nata da una sua sorella, vedova del marchese
di Fuscaldo, la quale in età matura si maritò col giovane Tiberio Carafa,
secondogenito del marchse d’Anzi, il quale per ragioni maritali, prese il
titolo di principe di Bisignano. Ma per motivi di un precedente fedecommesso di
famiglia il titolo di principe di Bisignano con le relative proprietà tornarono
ai Sanseverino di Saponara, quindi ai coniugi Carlo e Maria Fardella.
[9]Antonio Bulifon: “A 18 agosto morì
il conte di Chiaromonte di Casa Sanseverino all’improvviso. Questi era
succeduto al Principe di Bisignano come fratello di D. Luigi che morì nell’anno
passato, qual era uomo meritevole di gran lode per le sue virtù e dottrina e
bontà di vita. Ambidue morirono vecchi”.
[10]Autore di libri che esprimono
esemplari insegnamenti alle virtù il Principe Luigi Sanseverino Bisignano ogni
volta facevasi ricordare che aveva da morire, e lui si fece il seguente epitaffio:
Hic iacet Aloysius peccator /Bisignani princeps.
[11]La giovane sposa doveva contare
circa dodici anni di età essendo i genitori sposati nel febbraio del 1679 (A.
Bulifon, Diario).
[12]Benedetto Croce (I Teatri di
Napoli, Adelphi, 258) afferma che con la rappresentazione della commedia Los
empenos di un acaso del drammaturgo Pedro Calderon de
[13]ASPN, 1885, p. 463.
[14]Costantino Gatti (Sala Consilina
?-†1743): Memorie storico-topografiche della provincia di Lucania.
[15]Cataldo Amodei (Sciacca, Ag 1650 ca.
Napoli 1716?). Valoroso insegnante nei conservatori napoletani di Sant’Onofrio
e Santa Maria di Loreto; fu Maestro di Cappella di cospicui conventi e di
ricche Congregazioni laiche per i quali compose Messe, Mottetti, drammi
sacri e cantate. E’ giunto a noi un oratorio a tre voci su libretto di
Andrea Perrucci Fardella: Il terzo dolore della Vergine. Non di rado la sua
musica venne interpetrata dall’Abate Bonifacio Pecorone.
[16]
chiagnendo dico: / Chi cade in povertà perd’ogni
Amico.
[17]Il canonico di casa
Sanseverino-Fardella, Carlo Ferro, figlio di Vincenzo e di Porzia [?],
dodicenne, nel 1662 entrò come alunno alla Pietà dei Turchini, ove ebbe a
maestri Giovanni Salvatore, Francesco Provenzale, Carlo de Vincentiis e Nicola
Vinciprova.
[18]Baldassarre Pisani (Napoli 1650 –
dopo il 1710) figlio di Ignazio, mercadante e Agnesa Mazzola. I suoi libretti
per musica: Arsinda d’Egitto, 1680 (m. Cristoforo Caresana) Disperato inocente
1673 (m. Francesco Antonio Boerio), Adamiro, 1681 (m. Giovanni Cesare Netti.
[19]Andrea Perrucci (Palermo 1-6-1651
Napoli 6-5-1704) nacque da Francesco e Anna Fardella. Fu poeta dialettale,
trattatista di arte drammatica, avvocato; fu segretario dell’Accademia dei Rozi
di Napoli, dei Raccesi di Palermo, dei Pellegrini di Roma e
Censore Promotorio degli Spensierati di Rossano alla quale appartenevano i
coniugi Nicolò Gaetani, duca di Laurenzana e Aurora Sanseverino. Il Perrucci
dimostrò sempre ammirazione per la cugina Donna Aurora per la quale compose,
fra l’altro, il seguente sonetto laudativo: Gran cosa è Nobiltà! Chi n’è
provisto / Un gran Tesoro, un gran splendor possiede. / Ma vantar d’Avi eccelsi
il sangue misto, / E’ degli altrui trionfi esser erede. / Gran
pregio è la beltà! Natura il diede; / Ma di raro perfetto
esser s’è visto: /Brio Maestoso a
A volte il Perrucci amava firmare le sue opere aggiungendo
al cognome paterno quello della sua amata madre. Egli ci ha lasciato oltre
quaranta opere drammatiche, una delle quali,
[20]Nel 1713, il violinista-compositore
Giuseppe Antonio Avitrano fece stampare coi tipi di Michele-Luigi Mutio 12
Sonate a 4, opera terza, che dedicò a Carlo Pacecco-Carafa, VIII duca di
Maddaloni. Ognuna delle Sonate porta il nome di una persona o di una famiglia
imparentata col duca o, comunque, socialmente o politicamente vicine. Le
Sonate, dodici gioielli di musica strumentale, per eleganza di forma e nobiltà
di stile, portano i seguenti titoli: L’Aurora, l’Aragona, L’Avalos,
[21]Nel 1696 Nicolo Gaetani dell’Aquila
d’Aragona, duca di Laurenzana, principe di Piedimonte, consigliere di Stato e
Gran Giustiziere, come sua moglie Donna Aurora, era stato arcade degli Spensierati
di Rossano. Dagli inizi del ‘700 tenne nelle sue dimore di Napoli e di
Piedimonte cenacoli di letterati-filosofi di ascendenza cartesiana cui
partecipavano Nicolo Giuvo, Matteo Egizio, Giambattista Vico, Lorenzo
Ciccarelli, tipografo clandestino conosciuto con lo pseudonimo Cellenio
Zacclori. Probabilmente nella sua casa e stata costituita la prima Logge
massonica napoletana di fede inglese. Da un documento che, nel 1885 venne
scoperto fra le carte del processo Pallante e, d’allora appartenuto al pittore
Vincenzo Caprile e allo scultore Enrico Mossuti, si legge che l’11 (22) maggio
1728, lord Henry Hare di Coleraine, Gran Maestro della Gran Loggia
d’Inghilterra, esaudisce una istanza pervenutagli e firmata da alcuni Fratelli
di Napoli e dintorni con la quale essi chiedevano di regolarizzare le proprie
Logge massoniche. Con quel documento Lord Henry Hare incarica ed autorizza i
Fratelli Mr. George Olivares ed il violinista-compositore Francesco Xaverio
Geminiani (Lucca 1687 – Dublino 1762), di recarsi a Napoli per regolarizzare le
Logge-accademie napoletane, una delle quali venne intitolata Perfetta Unione.
[22]L’Elidoro in oggetto e una favola
pastorale? un dramma per musica? un dramma sacro che, la moda
dell’epoca, voleva infarcito di personaggi favellanti in napoletano o in
siciliano o in calabrolucano?
Il titolo esatto e veramente L’Elidoro o L’Alidoro?
o Eliodoro? Trovo traccia di un melodramma L’Elidoro
rappresentato nel 1686 ma a Napoli, non a Saponara; l’autore della musica e il
fiorentino Giovanni Bonaventura Viviani (che in quell’epoca si dichiarava maestro
di Cappella dell’eccellentissimo principe di Bisignano), no Carlo
Sanseverino, come viene comunemente attestato da diversi scrittori, anche sincroni.
Supponiamo che L’Elidoro del Viviani sia stato composto per Saponara e
poi rappresentato a Napoli, nel prolungato quadro dei festeggiamenti per le
nozze Gaetani-Sanseverino, allora nel tal caso il principe Carlo è solo
l’autore del libretto e, forse, della musica di qualche aria.
Trovo un L’Alidoro ovvero L’Amore honesto
compagno della fortuna, dramma per musica, rappresentato l’anno 1700 (a
Ferrara o ad Urbino) nel teatro privato del conte Pinamonte Bonaccossi, la
musica e di Don Gabriele Balami, maestro di cappella della metropolitana
d’Urbino (Modena Estense); un altro Alidoro venne rappresentato nel
1740, al Fiorentini di Napoli con libretto del napoletano Gennarantonio
Federico e musica di Leonardo Leo, l’opera fu dedicata a D. Domenico Caracciolo,
principe di Torella.
[23]Gabriele Fasano (1630ca. inizio
‘700), poeta dialettale napoletano. Francesco Redi (1626-1698) nel suo
Ditirambo Il Bacco in Toscana ricorda il Fasano con altri uomini
illustri appartenenti a diverse accademie napoletane dell’epoca. A sua volta,
il Fasano, trovo occasione di ricambiare la cortesia immortalando l’illustre
scienziato nella stanza 31 del canto XIV della sua Gierusalemme liberata
… traducendo il distico tassiano: Ei molto per se vede, e molto intese / Del
preceduto vostro alto viaggio…con Chisto e no Rede ‘nquanto a lo sapere / E ne
parlajemo assaje de sto viaggio / Na vota nziemme…
[24]Bernardo di Domenico (Napoli
1683-1759), autore di VITE DE’ PITTORI SCULTORI ED ARCHITETTI NAPOLETANI,
nel 1717 sposo Palma Vittoria Nicolini. Nelle disposizioni canoniche rilasciate
in Curia dichiaro di avere 33 anni e di abitare nel Palazzo della Duchessa di
Laurenzana della quale era gentiluomo. Anche il primo testimone, Giovan Paolo
de Domenico, suo fratello, dichiarava che era domiciliato nello stesso Palazzo
ed anche lui gentiluomo della medesima Duchessa. Bernardo e autore del libretto
Basilio Re d’Oriente Dramma per musica da rapresentarsi nel Nuovo
Teatro de’ Fiorentini in giugno 1713. dedicato […] al conte Wirrico di
Daun, vicere e capitano generale in questo regno di Napoli […]. Napoli,
Michele-Luigi Mutio, 1713. La dedica e di Nicolo Serino. Al discreto e virtuoso
Lettore si informava che Bernardo, nonostante i suoi onerosi impegni di lavoro
relativi alla faticosa compilazione del succitato trattato, agli affreschi e
alle tele da dipingere, per stare al passo con la moda dell’artista eclettico,
scriveva: “Ti presento […] Basilio rivestito et adornato all’eroica da
eroica Penna: che tutto che impiegata in altri severissimi studi, non ha
sdegnato tralasciarli per compiacerti […] Bernardo de Dominici” Musica di
Nicola Porpora, maestro di cappella dell’Ambasciatore di Portogallo, gia
maestri di cappella della della duchessa di Laurenzana.
Interlocutori: Gaetano Borghi (Basilio), [virtuoso
di Donna Aurora duchessa di Laurenzana] Gio. Antonio Archi, detto Corteccino
(Leone), Silvia Lodi (Doristo), Angela Augusti (Placidia),
Maria Maddalena Tipaldi (Flavia), Giovan Paolo di Domenico (Bareno),
Livia Nannini, detta
[25]Una leggenda narra che nel fiume
Sebeto della Napoli greco-romana, durante le celebrazioni del solstizio
d’estate culminavano con un tripudio di canti e danze pirriche, gli artisti vi
si immergevano (si battezzavano) per ottenere ispirazioni più elevate, i
condottieri per propiziarsi proficue vittorie, le giovani donne per divenire
madri di celebri personalità. La storia sostiene che nel IV secolo, dopo che
Costantino il Grande dà la libertà di culto ai Cristiani, verso la foce di quel
sacro fiume viene innalzata la chiesa di San Giovanni Battista. In tal modo il
magico rito purificativo delle religioni pagane adottate da quei Romani veniva
convertito nella suggestiva abluzione sacramentale di ascendenza giovannea. Ma
quella sorta di catarsi di rito pagano che lavava, redimeva anche le più
controverse passioni umane col bagno mistico dell’arte non furono mai
sostituite del tutto. Ancora nel Rinascimento, a Napoli, i Sindaci ovvero gli
Eletti del Popolo, venivano nominati il 27 dicembre, giorno dedicato a san
Giovanni Evangelista, ma, soprattutto il 24 giugno, durante gli esultanti e
pirotecnici festeggiamenti per I Fuochi di San Giovanni Precursore,
effettuati sulla spiaggia dell’odierna via Marina, alla foce del Sebeto. Anche
Pietro Antonio Sanseverino di Bisignano fu nominato
Eletto del Popolo il giorno di San Giovanni Battista del 1534 (l’anno
dopo egli ospitò nel suo avito palazzo a Spaccanapoli l’imperatore Carlo V).
[26]Per molti napoletani la collina di
Posillipo e stata considerata fonte di ispirazione artistica, avvicinandola,
spesso, al Parnaso apollineo e bacchico.
[27]Giacomo del Po, pittore eclettico
sia come decoratore che come scenografo, nell’aprile del 1683 giunse da Roma a
Napoli con la compagnia teatrale guidata da Alessandro Scarlatti e voluta in
massima parte dai Carafa Duchi di Maddaloni e Principi di Colobrano. In
seguito, il pittore romano fece parte del cenacolo Gaetani-Sanseverino.
[28]Protagonisti dell’opera eroica in
musica erano i super pagati soprani di sesso maschile, gli evirati, mentre
nell’opera buffa venivano utilizzati soprani muliebri, con voce naturale.
[29]Aniello Piscopo (fine XVII sec.
Inizio XVIII). Librettista di commedie in dialetto napoletano musicate da
Giampaolo De Domenico ( Lisa pontegliosa, T. Fiorentini, 1719) e Michele
Falco ( Lo ‘mbruoglio d’ammore, T. Tiorentini, 1717), compositori di
casa Gaetani Sanseverino e da Leonardo Vinci ( Lo cecato fauzo T.
Fiorentini, 1719).
[30]Nicola Corvo (1670ca.-1740ca.)
esercitò l’avvocatura fino a meritare la rispettabile carica di Presidente
della Reggia Camera della Summaria. Vacheggiò, platonicamente, molte donne
ma resto eterno scapolo. Fu allievo di Domenico Aulisio nelle lingue greca,
latina ed ebraica e di Girolamo Cappello in teologia e giurisprudenza; fu
condiscepolo e amico del sommo poeta dialettale e Accademico Palatino Nicola
Capasso (1671-1745). Gareggiò, con le sue poesie e commedie, con i più noti
poeti e commediografi coevi. Si sforzò di scrivere nell’italiano più puro;
seguendo la moda del suo tempo, nei suoi lavori drammatici per musica
introdusse personaggi che con acutezza di spirito, si esprimevano in dialetto
napoletano. E’ autore, tra l’altro, del Trionfo della castità di
sant’Alessio (1713) con musica di Leonardo Leo ed interpretato, nel
personaggio protagonista, dall’Abate Bonifacio Pecorone; compose il poema in
ottava rima Accomenzaglia nel quale esprime in un coloritissimo dialetto
napoletano le note gesta di Masaniello, è un bel monumento storico per
valutare i pensieri, e le forze motrici di quegli avvenimenti (Vincenzo de
Ritis Vocabolario Napoletano Lessicografico e Storico, vol, I, p. 401).
[31]Chèlleta è un vocabolo che si adopera in
sostituzione di cosa di cui non ci sovvenga il nome ma i librettisti di opera
buffa se ne servivano per indicare un loro lavoro drammatico di poco conto, con
personaggi del popolo che si esprimono in dialetto con un linguaggio frivolo,
faceto, gaio in contrapposizione al dramma eroico che ospita personaggi di ceto
superiore dal linguaggio contegnoso, accigliato, preoccupato.
[32]L’appassionato dialogo tra il
Pastore (Dio) e
a lle bracce meje sto mparaviso! (c. I, vv 2 e 3).
[33]In questa ottava potrebbe celarsi il
significato del vocabolo gotico e, nel medesimo tempo, il mistero dell’Iside, ossia,
della Madonna Nera, collocata nelle cripte delle cattedrali gotiche da quei
costruttori, per volere di San Bernardo di Chiaravalle. Sul culto di Iside in
Europa gli storici sostengono che al tempo in cui il dio Mitra divenne oggetto
di culto dei Romani la bruna dea egizia lo fu dei Galli. Si crede, infatti, che
la città di Parigi ne prendesse il nome, e che ad Issi, presso la stessa
Parigi, vi fosse un tempio ad essa dedicato; ne fanno fede tracce di reperti
archeologici ed alcuni monumenti. In quel fascinoso Medio Evo in continua
evoluzione sociale e religiosa generata dai nuovi rapporti tra i popoli
germanici con quelli dell’Impero Romano, ma soprattutto dai conflitti armati,
dai commerci e dagli scambi culturali tra l’Europa con l’Oriente Islamico, sorgono
corporazioni, sette religiose, nuove scuole di pensiero, lingue neolatine che
cantano l’ossequio alla Madonna e alla Donna angelicata, tema originato nella Corte
d’Amore e di Bellezza concepita dalla madre di Ugo di Provenza, re d’Italia
e ispirata ad inconcepibili ideali libertari, inconcepibili per
Liutprando di Cremona che, dopo la morte di quella
marchesa, ironizzò col noto detto: E’ finito il tempo in cui Berta filava!
I Costruttori di Cattedrali imbevuti di ardente fede religiosa e di una tenace
dedizione alle pratiche di scienze occulte, sostennero di non dare un taglio
netto al passato ma di congiungerlo al presente mediante la preghiera
purificatrice che rigenerava
[34]Scherzi drammatici: sono drammi sacri in musica con
alcuni personaggi buffi che si esprimono in dialetto; venivano rappresentati,
di solito, nei teatrini dei conventi.
[35]Uno dei tantissimi ammiratori del
Sassano, Aniello Cerasuolo, scrivano della Vicaria, descrisse la fama acquisita
dall’osannato usignolo nel colorito sonetto A laude di Matteuccio Sassano:
Da che tu sciste a chelle prime scene / Restaje chiu d’uno comme a maccarone /
D’ogne lenguaggio, d’ogne nazione / Fore le laude toje cchiu dell’arene. /‘No
Spagnuolo (‘ntis’io) disse: Esto tiene / Mas solsura d’Orfeo y d’Anfione; / ‘No
Calavrese disse: Aju ragione / Mannaja d’oje, e comme canta bbene. / Corpo del
mondo, ma no poco
chiano / Disse
‘no vecchiariello Sciorentino: / Oh, non in antesi mai simil soprano. / Ma
Giorgio lo Tedisco dette ‘nchino / E per Dio, disse, per sentir Sassano / Mi
starei quattro giorni senza vino. (Giorgio lo Tedisco = Georg Friedrich Handel, Halle 1685 –
Londra 1759).
[36]Francesco Antonio Tullio fu noto con
lo pseudonimo Colantuono Feralintisco (Napoli 1660-ivi 1737).
Compose circa quaranta libretti per musica quasi tutti in
dialetto napoletano e rappresentati al Nuovo e al Fiorentini. Al Fiorentini,
nel 1710 fece rappresentare Li viecchie coffeiate (musica del ventenne
Michele Falco uno dei tanti giovani artisti cresciuti artisticamente in casa
Gaetani-Sanseverino) con dedica a l’autezza Serenissima de la segnora
Prencepessa Darmstadt, futura consuocera di Donna Aurora Sanseverino;
l’anno dopo, sempre al Fiorentini, in occasione del prolungamento a
Napoli dei festeggiamenti delle nozze di Pasquale Gaetani dell’Aquila d’Aragona
con
[37]Michelangelo Faggioli (Napoli
1666-1733), dottore in legge e musicista: e autore di cantate da camera in
lingua ed in dialetto, ha il vanto di aver composto (libretto di Colantuono
Feralintisco)
[38]Il Principe Raimondo perpetua il
ricordo dei suoi genitori con due superbe sculture che allinea fra quelle che
raffigurano il cammino iniziatito della Cappella Sansevero, ovvero Il Tempio
della Pietà. Qui Cecilia simboleggia
[39]Nicola Fago (Taranto 1676-Napoli
1745), uno dei pochi laici insegnanti degli Istituti musicali napoletani,
apprese da Francesco Provenzale nella Pieta dei Turchini dove, in seguito,
divenne 1° Maestro.
Dei suoi discepoli ricordiamo Leonardo Leo, Francesco Feo,
Nicola Jommelli, Nicola Sala quasi tutti hanno operato in casa di Donna Aurora
Sanseverino o in quelle dei suoi familiari. Compose prevalentemente musica
religiosa; quasi tutti i suoi melodrammi furono composti per il teatro del
palazzo ducale dei Gaetani-Sanseverino di Piedimonte.
[40]Nicola Giuvo, poeta ufficiale di
casa Gaetani-Sanseverino. Come Nicolò Gaetani fu un inguaribile filosofo di
ascendenza cartesiana. Nel 1728 compose ventiquattro lettere-commento
(diciassette delle quali furono scritte da Piedimonte) alle Passiones Animae
(1650) di Renato Cartesio, riferite soprattutto al rapporto anima-corpo.
Quattro anni più tardi, sullo stesso tema, Nicolò Gaetani dell’Aquila d’Aragona
pubblicherà Degli Avvertimenti intorno alle passioni dell’animo, Napoli,
Felice Mosca, lo stesso editore di Giambattista Vico. Dopo la morte del duca
Gaetani, il Giuvo passerà a dirigere la fornitissima biblioteca del Principe
Spinelli di Tarsia, aperta al pubblico nel 1747.
[41]Michele Falco (Napoli 1690-1732ca.),
come molti musici e musicisti del cenacolo di Donna Aurora Sanseverino,
frequentò il conservatorio di Sant’Onofrio ove fu allievo di Nicola Fago
(1702/14); come attore fu discepolo dell’Abate Andrea Belvedere. Assai giovane
iniziò a comporre commedie musicali. Nella prefazione a
Un suo primo trovato però, quello della fuga, ha avuto
cattivo esito. Consiglia le giovanette d’opporsi alle pretese dei rispettivi
padri; ed esse mettono esattamente in pratica questo consiglio. I vecchi vanno
in furia, e, a loro volta chiedono aiuto a Cianniello. Ora si che costui può
muovere i fili dell’azione a suo modo! Suggerisce alle ragazze di mutar
politica, mostrandosi amorevoli coi vecchi. Benché a malincuore, esse vi si
acconciano, non senza pero avvertire lo spettatore ad ogni pié sospinto che il
loro vero pensiero e diverso. Lo Masiello (l. id. in casa di Mattia di
Franco, carnev. 1712), Lo ‘mbruoglio d’ammore (l. Aniello Piscopo, NA t.
Fiorentini 1717), Lo Castello saccheiato (l. Ciccio Viola, t. San Bartolomeo
1720), Le Pazzie d’ammore (l. Fr. Antonio Tullio, t. S. Bartolomeo
1723). Nel 1709 per il teatro di casa Domenico Francesco Celentano compose
l’oratorio San Nicola Vescovo di Mira.
[42]Giampaolo di Domenico (Napoli
1680-1758) Attore, cantante, compositore: si definiva virtuoso di camera
della Duchessa di Laurenzana. Come Michele Falco, è considerato uno zelante
fautore della commedia in musica, genere di dramma che i posteri chiameranno
Opera buffa. Dopo la morte di Aurora Sanseverino fece parte della compagnia
filodrammatica del Barone di Liveri che operava prevalentemente
per
[43]Evidentemente Donna Aurora vuole
prolungare al teatro dei Fiorentini di Napoli i festeggiamenti per le nozze di
suo figlio Pasquale.
[44]Cristoforo Scoor, architetto
cesareo, offrì la sua arte per l’allestimento di spettacoli di casa
Gaetani-Sanseverino.
[45]Gaetano Borghi iniziò come virtuoso
di camera della Duchessa di Laurenzana la sua luminosa e lunga carriera di
cantante che lo vide protagonista nei più grandi teatri d’Europa.
[46]L’arte, l’erudizione, la celebrità,
i meriti del mecenatismo di Donna Aurora Sanseverino oltrepassarono i confini
d’Italia. Nel 1721 Venezia le tributò un magnifico omaggio teatrale:
Anche i Fardella di Sicilia coltivarono interessi per
l’opera in musica: riproduciamo, qui di seguito, il frontespizio di un dramma
sacro dedicato a D. Michele Martino Fardella: L’Aquila oratrice; dell’invittissima
e fidelissima città di Trapani per la sovrana della gran Regina de’ Cieli.
Dialogo a cinque voci del signor don Vincenzo Giattini posto in musica dal
signor Giuseppe Lutio mestro di cappella del convento di Nostra signora del
Carmine da cantarsi nel medemo per la solennità di Maria Vergine sotto il
titolo del Carmelo, consacrato all’illustrissimo signore D. Michele Martino
Fardella Trapani Minore, baronello della Moharta e signore successore di
Giligaleph etc., 1685. Gioacchino Bona e Fardella fu librettista di vaglia: nel
1702 compose: 1) Tritolemo escluso dall’immortalità, serenata a tre voci
dedicata al Sig. D. Cristofaro Massa e Galletti, duca di Castel di Iaci […] per
la nascita della Sig. Donna Giuseppa Massa e
[47]Segnaliamo alcuni discendenti dei
coniugi Carlo Sanseverino Principe di Bisignano e Maria Fardella che, con forme
ed interventi diversificati, hanno onorato l’opera in musica: Carlo Sanseverino
Principe di Bisignano e Maria Fardella generarono: Giuseppe Leopoldo, Luigi,
Gian Francesco, Lilla e Aurora; Nel 1682: Aurora sposa Girolamo Acquaviva,
conte di Conversano. Nel 1686 Aurora sp. in seconde
nozze, Nicola Gaetani d’Aragona, duca di Laurenzana. Aurora e Nicola hanno tre
figli: Cecilia, Pasquale e Tommaso, Cecilia nel 1707 sposa Antonio di Sangro,
dai quali, nel 1711 nasce Raimondo mentre Pasquale nel 1711 sposa Maria
Maddalena di Croy. Il Conte Tommaso sposa Guglielmina de Merode, contessa di
Groesbeck. Tommaso e Guglielmina vivono in Belgio: la loro figlia Carlotta,
tredicenne, nel 1732 sposa il cugino Raimondo (in virtù del Fedecommesso di
Paolo di Sangro jr del 10 maggio 1626), figlio di Antonio e Cecilia. Raimondo e
Carlotta hanno cinque figli: Vincenzo, Paolo, Gianfrancesco, Carlotta, Rosalia
(sposa di Fabrizio Capece Minutolo). Rosalia e Fabrizio Capece Minutolo
generarono Teresa (sp. Scipione Cicala), Carlotta (sp. Marchese di Lizzano),
Maddalena (marchesa di Casale di Siracusa), il Principe di Canosa Antonio (famoso
per