Aurora Sanseverino può essere
considerata, senza dubbio, la rappresentante lucana più importante, se non
la sola, dell'Arcadia, periodo che va dalla fine della Controriforma e più
propriamente dal 1690, data di fondazione dell'accademia, alla pace di
Acquisgrana, (1748) che pone fine alle guerre
di successione ma segna anche l'avvio al lavoro per l'Enciclopedia che
sancirà l'affermazione del nascente movimento dell'Illuminismo.
Aurora, che era nata nel 1669, fu ammessa
giovanissima, a soli quindici anni alla nascente accademia probabilmente
più per la sua appartenenza ad una famiglia nobile che per le sue qualità
poetiche, ma condivise subito il progetto che si andava determinando in
funzione antibarocca e antimarinista nel tentativo di restaurare il buon
gusto con una poesia che rispondesse ai canoni della semplicità e della
chiarezza. D'altra parte, a un certo razionalismo critico, che già
serpeggiava nel mondo intellettuale europeo, contro l'oscurantismo della
Chiesa e l'assolutismo degli stati, si opponeva - in Italia e in Spagna in
modo particolare - ma anche in parte in Francia, una tendenza a considerare
l'arte come evasione, come momento idillico e quasi una sorta di ornamento
e di intrattenimento, in qualche modo in raccordo con il Rococò, stile
nuovo che, come sappiamo, coinvolge anche la musica e la pittura ma che
interessa prevalentemente l'architettura.
Partecipò attivamente ai vari incontri e soprattutto fu testimone diretta
delle due date più significative dell'Arcadia: il 1690, ovvero la data
ufficiale di nascita dell'accademia che si diffuse poi in tutta l'Italia;
1696, ovvero la data di approvazioni delle proprie leggi dettate dal
Gravina nel latino delle Dodici tavole.
Aurora
Sanseverino nacque a
Grumento Nova il 28 aprile nel giorno in cui gli antichi romani
davano inizio ai Giochi Antii dedicati alla
Fortuna e celebravano le feste floreali.
Di qui forse la scelta del nome anche se qualcuno la vede in connessione
con un famoso dipinto dell'abate Giovanni Ferro, rappresentante una
fanciulla bellissima che sparge fiori sul mondo e che ha nome Aurora.
In un modo o nell'altro il nome, fu voluto e imposto dal padre,
appassionato di studi, conoscitore della musica e dotato di intelligenza
fino alla genialità, oltre che abile nella scherma e nell'equitazione,
stando a quanto riferisce V.Marsico in "Vite e
tormenti di grandi piccole donne".
Appartenne a famiglia ricca oltre che nobile, anche perché il padre, Carlo
Maria Sanseverino, aveva accresciuto il
patrimonio sposando la benestante Maria Fardella
che aveva portato una dote cospicua.
Questo ci aiuta a comprendere l'ambiente lussuoso e raffinato ma anche il
fervore culturale che spinse la Sanseverino ad
accostarsi all'arte poetica e a produrre ella stessa
componimenti andati perduti. Di lei ci rimangono pochi sonetti
pubblicati nelle "Raccolte di rime" di Acamfora
e di Agnello Albani.
Il suo primo matrimonio, quando aveva solo tredici anni ma era già bella e
ben formata, con il conte di Conversano, Girolamo
Acquaviva, durò solo qualche anno per la morte del marito. Il
secondo, dopo una breve sosta nella casa paterna, con il principe di
Laurenzana,
Niccolò
Gaetani di Aragona, le consentì di vivere a Napoli dove la sua casa
divenne vera e propria accademia ed ella fu tenuta in grande
considerazione, seconda soltanto a Cristina, ex regina di Svezia, a Roma.
Il modo di fare poesia di Aurora Sanseverino è
tipico dell'Arcadia, del primo periodo nel quale domina la figura di
Eustachio Manfredi, accanito petrarchista e
privilegia l'uso del sonetto e della canzone. Il tema è quello pastorale,
con paesaggi incantati ed irreali, quasi dipinti e artefatti, contesti
artificiosi nel favoloso modo di presentarsi, ambienti idilliaci,
pastorelle belle, visioni particolari, graziosità finanche vezzose,
presentate con un linguaggio semplice., vago,
languido, flebile, musicale anche troppo, logoro e, a tratti, svenevole.
Anche per Aurora i temi sono prevalentemente amorosi, malinconici,
ammantati di sospiri e di stanco sentimentalismo e quindi sostanzialmente
non veri, non sofferti, e neppure veramente sentiti.
Ovviamente lo sfondo non può essere se non quello costituito da una natura
idilliaca, in una sorta di paesaggio fiabesco ricco di elementi eppure vago
e indefinito, attraente e lontano, fruibile in apparenza ma nella realtà
non godibile e sostanzialmente artefatto.
Del resto non va dimenticato che un elemento fondamentale dell'Arcadia è
costituito dal "Travestimento" che era d'obbligo presupponendo la
trasposizione in una regione che appariva mitica ed era celebrata dalla
poesia pastorale. Se tutti diventavano pastori ed assumevano nomi adeguati
(Aurora era Lucinda
Coritesia) e dipendevano dal presidente cui spettava il titolo di
Custode generale, un complesso rituale, quasi un giuoco stucchevole, era
alla base delle riunioni e regolava l'organizzazione.
Lo stesso clima di travestimento risulta presente nelle poesie di Aurora
Sanseverino, le pochissime pervenuteci, tutte
incentrate sull'amore.
E ci pare utile riportare il sonetto: "Sfoga pur contro
me?"
Sfoga pur contro me, Cielo adirato
quanto più fai tuo crudo aspro
furore
ch'indarno tenti di fierezza armato
spegner favilla al mio cocente
ardore.
Puoi ben
tormi, ch'io possa in su
l'Amato
volto nutrir quest'affannato cuore
ma sveller non puoi già del manco
lato
il dolce stral
con cui ferimmi Amore.
Siami
pur forte rea ogn'or più infesta
viva pur l'alma in pianto ed in
cordoglio
che il mio fermo
desir ciò non s'arresta.
Io son di vera fede
immobil scoglio
cui di continuo il vento, e 'l
mar tempesta
ma non si frange al
lor feroce orgoglio.
Se la presenza dell'amore è talmente radicata nella poetessa da farla
sentire "scoglio di fede immobil", contro il
quale invano possono abbattersi venti e tempeste e addirittura anche il
"Cielo adirato" non può spegnere l'ardore che è presente in lei e non può
nemmeno tentare di svellere il "dolce stral
d'amore", è ugualmente evidente nei versi, nella modulazione, nel modo di
raccontare, che non c'è la tensione e la sofferenza vera e che si tratta
piuttosto di una sorta di finzione. Vento, tempesta, cordoglio, pianto,
sono tirati in causa quasi per rispondere a certe regole del gioco che
pongono al centro dell'attenzione il tema universale ed eterno dell'amore,
nelle sue più diverse sfumature e nel suo radicamento.
Il sentimento qui appare narrato in maniera generica, se non astratta e
lontana e la certezza della donna risulta troppo scontata per rappresentare
una sorta di pericolo o soltanto essere messa in discussione.
Quanto al modulo, va detto che esso é chiaramente petrarchesco, di facile
imitazione e senza caratteri veri di originalità e di personalizzazione.
Lo stesso discorso va fatto per un altro sonetto dove il tema centrale
appare la solitudine. Infatti la poetessa
immagina di andarsene, sola soletta, lontana dalla città e dalla gente per
cercare un nascondiglio tra i boschi dove, non veduta e non ascoltata,
possa dare sfogo al suo dolore e, a tratti, consolarsi ascoltando il canto
di Progne
e Filomena.
Come selvaggia fiera i lumi ardenti
f ugge del sol che rasserena il mondo
e della notte entro l'oblio profondo
solitaria sen va tra l'ombre algenti
tal
son io che lungi dalle genti
e dall'alma città fuggo, e m'ascondo
e tra le selve e i miei
sospir diffondo
di poggio in poggio, all'aure, all'onde, ai venti.
Talor d'un rio su
la fiorita sede
poso le membra lasse, e al cantar fioco
odo risponder Progne e Filomena.
Così prendendo il cieco mondo a giuoco
cotal sento virtù che mi
rimena
a più felice via, ch'altri non crede.
Anche qui dolore,
sofferenza, bisogno di solitudine sono quasi un pretesto, un'invenzione, un
gioco di parole. Il paragone con la "fiera selvaggia" che fugge la luce del
sole appare non solo esagerato ma anche, in qualche modo, improponibile.
Sembra quasi che l'autrice cerchi un tranquillo e dolce luogo e senta il
bisogno-piacere di raccontare di sé "di poggio in poggio,
all'aure, all'onde, ai venti". Non è un caso che
ella dichiari di fermarsi talora non in un posto qualsiasi per dar sfogo
alle ansie d'amore, ma presso un "rio su la fiorita sede".
Quanto al richiamo
al mito di Progne e Filomena esso testimonia
certamente il buon grado di conoscenza, della cultura antica e di Petrarca.
Questi lo riprende dalla mitologia greca trasformando i nomi di
Procne e Filomela in
Progne e Filomena: "E garrir Progne e
pianger Filomena".
Secondo la
leggenda, Tereo, marito di
Progne, aveva sedotto la sorella di lei, Filomela, e per impedirle
di parlare le aveva fatto tagliare la lingua. Tuttavia la vittima era
riuscita a comunicare la verità a Progne,
servendosi di un ricamo sul quale aveva narrato l'oltraggio subito. Allora
le due donne organizzarono la vendetta. Cucinarono le carni del figlio di
Tereo, Iti, dopo
averlo ucciso, e le fecero mangiare al padre. Questi, saputa la verità,
minacciò di ucciderle. Le donne fuggirono inseguite dall'uomo. Gli dei
ebbero pietà e, un attimo prima che l'uomo le raggiungesse, le tramutarono
in rondine o in usignolo.
Mentre Petrarca
propende per la prima soluzione, "Garrir Progne"
la Sanseverino, che adotta i nomi da lui
utilizzati, è favorevole alla seconda.
Quanto alla
solitudine cui si fa riferimento nel sonetto, pare
evidente che non sia, neppure vagamente, paragonabile con quella di
Isabella Morra, veramente profonda, straziante, sentita e giustificata. Qui
l'allontanamento resta sostanzialmente un modo
civettuolo di fare, un pretesto che consente all'autrice di esprimere
sentimenti stanchi, controllati, dominati.
Forse più vario e
ricco di immagini apprezzabili, risulta un altro sonetto, che appare anche
piuttosto originale e che ha come tema la morte prematura di una
donna-amica.
Zeffiri molli, aure soavi e chete,
vaghi uccelletti, ombre gradite e sole,
gigli, ligustri e tremule viole,
deh, cessi il riso, e al comun duol
piangete
ninfe, coi ch'n quest'onde albergo avete,
lasciate i dolci balli e le carole
e accompagnando il suon di chi si duole
sol di mesti cipressi il suol spargete.
L'aria, la terra, e 'l mare in
duol sia volto
e calzi ogni mio cigno altro coturno
sol rida il ciel per sì gradito acquisto.
Così
disse piangendo il mio Volturno
quando a lei giunse il suon tra l'onde misto
ch'alta donna regal morte ci ha tolto.
Qui il tema
dell'amicizia appare piuttosto immaginata come sentita e sincera e risulta
cantato con un certo distacco; infatti non si
avverte l'intensità dei sentimenti, la forza del dispiacere per la
scomparsa della "donna regal", il richiamo ai
ricordi forti e buoni, la lacerazione dell'anima. La rievocazione avviene
con sobrietà di toni, quasi una forma doverosa, con dolcezza pacata e
lontana in un riferimento spaziale ad una situazione irreale e magica.
Anche il riferimento al fiume Volturno appare certamente dolce e gradevole
ma non possono sussistere gli elementi per tentare un paragone con il
"Torbido Siri" della Isabella.
Il mondo poetico di Aurora Sanseverino, per
quel poco che se ne può ricavare dalle poesie, non presenta richiami alla
situazione storico-politica ma vive del tutto avulsa quasi in una sorta di
distacco o di chiusura. Eppure il Seicento risulta un secolo ricco di
situazioni che non potevano passare inosservate. Prescindendo dagli aspetti
storici e politici di quegli anni, pure turbinosi, al cenacolo culturale di
casa Gaetani, presieduto sempre, e
brillantemente da Aurora, dovevano arrivare almeno gli echi dei fatti
europei e della rivoluzione scientifica per effetto dell'applicazione,
nella scienza moderna, del metodo sperimentale nello studio dei fenomeni
naturali. Nomi come Galilei, Copernico, Newton non potevano passare
inosservati.
La mancanza di un qualsiasi riferimento indiretto a tutto ciò, mi pare
costituisca un limite per la poesia di Aurora
Sanseverino la quale fa propria la regola del ritorno alla
semplicità naturale e pastorale voluta dall'Arcadia. Regola impossibile,
come dichiara Giacalone, semplicemente perché i
poeti arcadici "sono letterati esperti e consumati, uomini di corte e di
salotti, aristocratici pure essi, che adoravano
una natura intravista attraverso filigrane letterarie, poesia classica,
petrarchismo, esigenze e costumi aristocratici".
Ciò è tanto più vero se si considera che si tratta
sempre di falsi pastori che ammiravano la natura e la campagna da
lontano, quasi da una invetriata e non avevano mai contato, se non
superficialmente, con essa. E la sanseverino
era ben lontana dalla vita pastorale!
Questo, tuttavia, non significa che ella fosse insincera ma sta solo ad
indicare il modo distaccato di cogliere gli aspetti esteriori della natura,
sempre filtrati. Di conseguenza anche i colori non sono vistosi o accesi,
non mostrano toni caldi dell'età barocca, ma risultano come sfumati, come
pastellati fino alla neutralità, morbidi e
delicati e generalmente accompagnati da geometrie rigorosamente lineari e
da una gestualità sempre misurata.
Basta considerare il sonetto dedicato ai fiori:
Poveri fiori! Destra crudel vi coglie
v'espone al foco, e in un cristal vi
chiude.
Chi può veder le violette ignude
disfarsi in onda, e incenerir le foglie!
Al
giglio, all'amaranto il crin si toglie
per compiacer voglie superbe e crude,
e giunto appena april
in gioventude
in lacrime odorose altrui si scioglie.
Al
tormento gentil di fiamma lieve
lasciando va nel distillato argento
la rosa il foco, il gelsomin la neve.
Oh,
di lusso crudel rio pensamento!
per far lascivo un crin
vuoi far più breve
quella vita, che dura un sol momento.
Anche l'amore
non è veramente forte, non raggiunge toni drammatici o tragici, non cede
alla disperazione, non è intriso di lacrime ma piuttosto coperto di sfumata
malinconia, superficiale ed apparente o calcolata nei suoi effetti e sempre
contenuta nel cerchio velato dei modi buoni e garbati.
Ovviamente il sentimento risulta poco o per niente autentico: è piuttosto
una veste esteriore.
Se tutto questo è vero, è altrettanto vero che la poesia di Aurora
Sanseverino riesce a prendere una certa
distanza da altri poeti arcadici i cui versi appaiono carichi di mollezza,
di grazia artificiosa, di esagerazioni, di sdolcinature tanto da subire la
critica anche feroce come quella del Baretti
che si sdegnava contro l'inzuccheratissimosmascolinati
sonetti, pargoletti piccini, mollemente femminini, tutti pieni di amorini".
Anche in riferimento a tali situazioni la poesia della Nostra, supera il
limite della testimonianza, soprattutto nelle
poesia dedicate al marito, spesso lontano e forse trascurato nei suoi
confronti.
"Zappi e
contro i suoi ".
Vivi lontan, ch'io ti sarò vicino
se non con gli occhi, almen col
core al fianco
se a languir mi condanna il mio destino?
?cenere amante io serberò giù fino
l'incendio tuo, che d'abbracciar mai stanco
e finché verran l'alme
ambe ad unirsi
Lucinda tua, ti raccomando, o Tirsi.
E ancora altrove, sempre per la lontananza del marito possiamo leggere:
Ben son lungi da te, vago mio Nume
qual per mancanza di vitale umore
arida pianta, qual senza vigore
palustre augel con basse e tarde piume.
Ben
son lungi da te, qual senza lume
notte piena di tenebre, e d'orrore:
ben son lungi da te, qual secco fiore,
cui soverchio calor arde e consuma.
In
te, mia vita, han posa i miei desiri:
or se da te tant'aria si diparte,
qual pace troveran gli aspri martiri?
Ahi,
dunque, è ben ragion, che in mille carte
sfogli sue angosce in lagrime
, e sospiri
quest'alma, che si strugge a parte a parte.
Resta il rammarico per il fatto che la maggior parte della
sua produzione poetica sia andata perduta. |