indietro
All’amico
Dott. Gugliemo Della
Villa
Vista dalla strada dei pioppi e dal lato della ferrovia, si può dire essere Piedimonte una città fiorente e cospicua per numero di caseggiati e di abitanti, una città ricca di movimento, di gaiezza, di modernità. Ma, nell’interno, alle falde del colle, lungo le anguste stridette, sulle ripide coste, a Piazzetta, a S. Giovanni, a S. Lucia, alle Coppetelle, alla Crocevia, rivive Piedimonte del medioevo, coi suoi vecchi fabbricati che, attraverso i secoli, han subite le capricciose esigenze dei gusti e delle mode, – oppur che, rimasti in abbandono, sono, qua e là, diruti o cadenti. È qui la primitiva chiesuola di S. Giovanni a capo la Terra, originaria pieve della gente del borgo e del contado, armonica nella sua costruzione, nella facciata e nel campanile; – qui, a Piazzetta, il palazzo di Giovanni de Forma, denominato de Pedemonte in tutte le scritture che lo riguardano, Presidente della R. Camera della Sommaria e Luogotenente del Protonotario del regno ai tempi di Giovanna II e di Alfonso I, con le finestre ad arco semicircolare e ad arco acuto e le loro svelte colonnette, che l’arma gentilizia de Forma armonicamente abbellisce; – qui il palazzo della Casa Gaetani d’Aragona, feudataria del luogo, di aspetto e di forme grandiose; – e qui tanti altri edifici e tante altre memorie, che sarebbe troppo lungo enumerare. Una carta di tutti questi luoghi di Piedimonte sarebbe una storia della vita locale per tutto quel lungo periodo, che dalla più fitta oscurità del medioevo, attraverso un’orgogliosa civiltà, giunge ad una decadenza, in cui sono tutti i germi di una vita nuova. Perché, addentrandosi nei remoti sentieri di questa pittoresca parte di Piedimonte, sulla cima del colle, quelle ruine, quella torre, quelle mura, spiegano le lotte e le paci, le inimicizie e le alleanze, nonché la varia esistenza ed il costituirsi della popolazione, aggrappata al castello ed alla pieve, a difesa o ad aiuto. Perché quivi fu il riprodursi dei vassalli, il formarsi lento ed osteggiato della cittadinanza; quivi il primo ascendere altero della prepotenza ed il successivo discendere a men selvaggi costumi ed a prepotenze minori, sino a che, mentre il monte muore nella pianura, il castello si confonde nella casa borghese. Ma lasciamo i paurosi drammi, eccezionali anche nei secoli del ferro e del sangue, di cui ha inorridito la storia, che li circondava dell’immortalità ed a cui le arti cercarono ispirazione. Guardiamo ad un’epoca a noi più vicina e che segna il periodo di transizione dai secoli della feudalità, già, allora, oramai, divenuta borghese, alla vita di progresso civile, che una nuova era determinava. Osserviamo Piedimonte come fu in pieno secolo XVIII, quando già era venuto a mancare il fondamento giuridico, su cui, nel medioevo, posavano la divisione del lavoro, del consumo, del commercio, della proprietà e della pubblica amministrazione, quando, per vero, perduta la feudalità la massima parte della sua importanza, Piedimonte sviluppava nella vita economica e nel suo affrancamento. Epperò, se lo studio di questi fatti richiede maggior pazienza e minore immaginazione della fabbrica di quelle tetre leggende, ed offre quindi minor seduzione d’altra parte il ricco materiale che si raccoglie, – specie se il modesto esempio invoglia altri a consimile lavoro, almeno per i paesi di una regione – servirà allo storico ed all’economista per dedurre opportune conseguenze.
Innanzi tutto, il feudo e l’università,i due enti giuridici per lunghi secoli osteggianti tra loro, cioè una signoria antica e continua nella stessa casata, che non pure non erasi convertita in dominio assoluto, al che sarebbe stato di ostacolo, se non altro, l’esistenza della monarchia; – dall’altra, un’autonomia locale, garantita dallo Stato, forte e gelosa custode dei propri diritti, della secolare sua indipendenza. L’eccellentissimo sig. Duca di Laurenzana D. Giuseppe Antonio Gaetani di Aragona[4], di anni 31 – come dice l’Onciario – era nel 1754 il signore del feudo di Piedimonte, già da circa quattro secoli nella sua Casa. Nella sua persona l’esercizio delle giurisdizioni, il mero e misto imperio, col banco della giustizia, sui vassalli del feudo; in lui il godimento di jus e prerogative nel vasto dominio feudale. Così il dritto del passo, che riscuoteva dai viandanti all’ingresso della città, a Porta Vallata; quello della esclusività della vendita delle pelli piccole; l’altro della mola per arrotare li ferri ai legnaiuoli; il jus di farsi la Defensa nei luoghi demaniali per comodo dei suoi animali. Così i dritti proibitivi del fitto della pesca delle tinche del lago nel monte Matese; l’esazione dei pollastri, da coloro che volessero irrigare i propri fondi in tenimento del feudo; il fitto della lava dell’acqua piovana, che scorre per le strade della Vallata, quartiere della città di Piedimonte; il bollo per riconoscere i lavori del Lanificio, esercitato dai Consoli dell’arte. E nello stesso tempo la privativa per l’esercizio di due molini, l’uno nel luogo detto Capo dell’Acqua seu Valletorano, accosto al Torano e via pubblica, l’altro detto dietro il Carmine; per l’esercizio di tre Tappeti al Ponte dell’Ossa e dietro S. Rocco, con l’esazione della decima dai cittadini, per il Purgolo nel luogo detto al Mercato, dappresso al Torano, per levar l’olio dai panni di lana, esigendo carlini 31 per ogni panno di canne 24; per la Tinta grande, dietro il Mercato, fittata per annui ducati 1350; per la Taverna al Mercato, fittata per annui ducati 969; per la misuratura per ogni tomolo di grano tornesi tre, e tornesi due per ogni tomolo di altre vettovaglie, dai cittadini e dai forestieri nei lunedì, giorno del mercato; per lo pezzuco per ogni animale, che si recasse al mercato; per l’esercizio della carderia della lana; per la cartiera esistente tra la via pubblica ed il Torano; per nove valchiere, a S. Rocco, all’Isola, al Ponte dell’Ossa, alle Tiratore coverte, alla Taverna, al Mercato e dietro il Carmine; per la conceria delle pelli; per la ramiera al Ponte del Carmine; per la forgia al Mercato, presso il locale delle carceri. Ed il fasto del feudo si estrinsecava nella vita privata del Duca e della sua famiglia, nella numerosa servitù, nei vasti possedimenti. Imperocché questo duca di Laurenzana dalle sue nozze con Donna Laura de Mari, dei marchesi di Acquaviva, aveva procreato, nel 1754, D. Nicola, figliuolo primogenito, allora decenne, qualificato conte di Alife, Donna Rosalba, D. Onorato, D. Gabriele e D. Francesco Maria. Costoro, insieme a D. Pasquale Gaetani, di anni 24, investito del beneficio di S. Lorenzo, in S. Maria di Capua, e fratello del duca, abitavano “in un palazzo di più e diversi appartamenti, e stanze, officine e cantine, teatro, stalle, giardini di delizie con agrumi e fiori, e con fontane d’acqua corrente, et altri comodi, sito ove dicesi Palazzo, fini li beni delli RR. Canonici di S. M. Maggiore, dei RR. PP. Domenicani, di Marcellino Manzo, il Rivo, via pubblica ed altri fini”. Ed avevano una numerosa corte, composta dal segretario Francesco Fatti, dal guardarobiere Saverio di Iorio, dalle cameriere Giovanna Narni e Giuditta, sua figlia, Francesco Meola e Maria Domenica Capocollo, dai camerieri Giovanni Coppola e Pasquale Luciano, dal paggio Marcellino Ivone, dal lacchè Marcellino Paterno, da cinque serve, un portiere, tre lavandaie, un ripostiere con tre aiutanti, un cocchiere, un servitore ed un volante. Tenevano per proprio uso e comodo dodici cavalli di carrozza e sella, e tre muli. Possedeva la Casa Ducale, in Piedimonte, – oltre il demanio feudale delle montagne del Matese, – molteplici beni burgensatici, cioè la Villa con l’attiguo podere con laghetto d’acqua corrente, che forma un’abbondantissima sorgente di acqua, l’orto della Palombara con casamento di più stanze, la masseria con casino di delizie et altro casamento separato con Cappella, ove dicevasi la Masseria delli Pioppitelli seu delli Cipressi, l’oliveto del Palmento, la cesa di Iaquinto e Guadagno a Capo la Terra ed altri beni. Aveva 120 animali vaccini, 40 bufale, 40 giumente, 2795 pecore, 470 capre e 18 bovi. La ricchezza della Casa – rapportando la proprietà in Piedimonte a quelle site in Gioia, in Dragoni, in Alvignano, in Capriati ed in altri feudi della famiglia – è assai rilevante e notevole. Congiunta agli uffici, ai parentadi, la Casa, in quell’epoca, può dirsi perciò semplicemente potente. Ma di contro a questa potenza, in continua lotta per la propria egemonia, era l’Università, con le sue leggi, il suo governo, i propri ufficiali. Reggevasi l’Università secondo i Capitoli e Statuti Municipali da essa formati con assenso del suo barone Onorato Gaetani d’Aragona, conte di Fondi, nel 1481[5], e secondo le posteriori riforme e talune altre antiche consuetudini. A capo della civica amministrazione stavano due Giudici e Sindaci, coadiuvati da ventiquattro cittadini, detti Magnifici del Reggimento, prescelti metà fra gli abitanti del quartiere Piedimonte e metà fra quelli del quartiere Vallata. Veramente questi ultimi, fino al 1753, erano in numero di sei, perché gli altri sei reggimentali erano cittadini del quartiere Castello; ma separatosi Castello da Piedimonte quoad amministrationem, proprio nel 1753, il numero dei suoi reggimentali andò a crescere quello del quartiere Vallata. I Giudici e Sindaci avevano anche le funzioni di Maestri Portolani e perciò incaricati di vigilare a che non si facessero dissodazioni e cesine, con incendi e tagli nelle montagne demaniali. Sino al 31 agosto 1754 ressero l’Università, come Giudici e Sindaci, D. Michelangelo Ragucci ed il mag. Marco Cavicchia. Nel seguente giorno, data consuetudinaria, l’Università, riunita in consiglio nel convento di S. Tommaso d’Aquino, luogo solito delle riunione dei pubblici parlamenti, procedette alla nomina dei successori. I due Giudici e Sindaci duravano in carica un sol anno, cioè dal 1 settembre al 31 agosto dell’anno successivo. E l’elezione aveva luogo a maggioranza di voti dei reggimentali, su proposta dei nuovi nomi, che era fatta dai Giudici e Sindaci uscenti. L’elezione del 1754 ebbe una nota particolare. I nominati Giudici e Sindaci D. Michelangelo Ragucci e D. Marco Cavicchia, che cessavano dalla carica, nel parlamento del 1 settembre 1754, riunito, come si è detto, nel convento di S. Tommaso d’Aquino ed in presenza del Governatore della Corte di Piedimonte e casali dott. Nicola de Honestis, proposero a loro successori nell’ufficio D. Francesco Rossi per il quartiere di Piedimonte e D. Giuseppe Andrea Greco per quello di Vallata. La maggioranza si raccolse sul primo nome; il Greco invece ebbe una parità di voti. Per derimere questa parità si ricorse al sig. Duca Padrone, il quale, come primo cittadino e barone, aveva il diritto di dar voto nella elezione e confermare i Giudici eletti. Il Ragucci andò ad interpellare il Duca, il quale dette il suo voto al Greco, che così ottenne la carica. Nello stesso parlamento, a proposta dei Giudici e Sindaci uscenti, si procedette, come era sistema, alla nomina dei nuovi reggimentali dei due quartieri. Anche nei parlamenti e dai reggimentali era fatta la nomina dei Governatori e dei Razionali delle cappelle laicali della città. A 7 giugno 1754 il mag. Giuseppe Martini fu nominato Governatore della Cappella dell’Annunziata di Vallata, e nel 12 luglio successivo furono nominati: Governatori della Chiesa e Confraternita di S. M. di Costantinopoli dello Scorpeto i mag. Francesco Rossi e Sebastiano Gambella; economi della Cappella del SS. Di Piedimonte il mag. Pasquale della Torre; dei quella di Vallata D. Marzio Trutta e Pasquale Costantini e dell’altra di Sepicciano il suddetto Gambella, il cancelliere dell’Università era il not. Carlo Ciccarelli, sostituito tre anni dopo per irregolarità commesse. Il Governatore della Corte baronale, che pure annualmente esercitava il suo ufficio, doveva essere sottoposto a sindacato dell’Università. Nel 22 novembre 1754, riunito il parlamento in presenza del mag. Dott. Vincenzo d’Agnese, mastro della fiera di S. Martino, sulla richiesta del governatore de Honestis, si procedette alla nomina dei sindacatori, due per Piedimonte e due per Vallata. Nel detto giorno furono anche nominati i Razionali per la revisione dei conti dei passati Sindaci e dei gabellotti ed altri arredatori dell’Università per l’anno 1753-54. Per dieci volte si riunì il pubblico parlamento nel 1754 e quasi sempre per procedere ad elezioni a cariche ed uffici. Notevole il parlamento del 26 aprile, che ricorda le questioni fra Piedimonte e Gioia “sulla pretenzione di quella di voler fidare gli animali dei cittadini di questa Città e suoi casali, che vanno a pascolare nel Feudo di Carattano, che per lo Gius di pascolare, e pernottare, e legnare corrisponde questa Università all’Abbate beneficiario di detto feudo di Carattano annui ducati sei”, per cui fecero procura al dott. Tiburzio de Parillis, di Piedimonte, residente in Napoli “che difese la stessa causa anni addietro”. Rilevante l’altro del 18 agosto, in cui fu deliberato che sugli introiti delle gabelle dell’Università “si paghi all’Ecc.mo Duca Padrone l’adiutorio per le doti di D. Marianna Gaetani sua sorella, giusta la costituzione Quam plurimum di Guglielmo I il malo”, ossia una sovvenzione pel matrimonio della sorella del feudatario, superstite dritto costituito nei tempi più antichi e più gravosi delle soggezioni feudali. Perduravano nel 1754 i giudizi per una serie di gravami, relativi ad abusi ed occupazioni addebitati al barone, da parecchi anni prima dedotti dall’Università nei tribunali del S. R. Consiglio e della R. Camera della Sommaria, e che furono soltanto decisi dalla Commissione Feudale con le sentenze 15 maggio e 31 agosto 1810.
Ø Famiglie cittadine n. 856, persone n. 4390; Ø id. di napoletani privilegiati n. 9, persone n. 56; Ø id. forestieri abitanti n. 11, persone n. 64; Ø Monaci e monache n. 122. Erano fuochi assenti altre tre famiglie, con 17 persone, che non fanno parte della suddetta somma.. Questa popolazione era composta da n. 2106 maschi e n. 2526 femmine. Erano di età inferiore ai 15 anni, n. 1310 individui dei due sessi; avevano superato il 75° anno di età n. 64 persone. La più vecchia della città era Caterina d’Amore di anni 97, madre di Tommaso Meola, falegname al Mercato, ed abitante in casa propria nella località Gradelle. Seguivano i novantenni Porzia Fatti e mag. Giuseppe de Stefano. Delle riferite 876 famiglie, abitavano in casa propria, n. 628, ed in casa di affitto n. 248, avendosi così che circa i ¾ della popolazione era proprietaria della propria dimora. Invece, delle stesse 876 famiglie, soltanto 332 possedevano terreni, contro le restanti 544, che possedevano la sola casa o non possedevano nulla, ossia che i 2/3 della popolazione non era proprietaria terriera. Per il governo dell’Università esisteva una certa separazione di ceti, e perciò si trovano quali Nobili viventi i mag. Antonio e Domenico Confreda, Giuseppe Paterno, Giacomo Mazza, Giuseppe e Sebastiano Gambella, Gio. Angelo Pagano, Marcellino e Giuseppe de Clavellis, Michelangelo Ragucci, Luigi Pertugio, Pasquale Potenza, Marzio Trutta, Domenico de Stefano, Vincenzo Pitò, Cosmo di Giorgio e Pasquale de Antonellis. Cinquantuno famiglie vivevano con le rendite dei propri beni ed erano, come dicevasi, franche di testa, ossia immuni dal pagamento delle once. E sia tra queste famiglie, come fra quelle che vivevano nobilmente, parecchi individui si trovavano nell’esercizio di professioni liberali e di decorosi uffici, anche in Napoli. Troviamo infatti dottorati in legge, Giulio, Giuseppe e Pasquale Paterno, Giuseppe Gambella ed i fratelli Marzio e canonico Gio. Francesco Trutta, l’autore delle Antichità Alifane; e poi Domenico Noratelli, Filippo de Benedictis e suo figlio Luigi, Marcellino e Carlo Ciccarelli, Francesco d’Amore, Tiburzio de Parrillis e suo figlio Ignazio, e Vincenzo e Francesco d’Agnese. Esercitavano la medicina i dottori fisici Marcellino de Marco, Giuseppe Vertollo, Francesco Pollastrini, Germano De Lisi, Francesco Greco, Antonio Barra e Giuseppe Iannitelli. Chirurgo, Stefano Buontempo. E nell’Ospedale degli Incurabili di Napoli, il professore di chirurgia Francesco Coppola, di anni 25, figlio di Luigi, barbiere. Erano notai, i mag. Antonio Pernotti, Francesco d’Orsi, Giuseppe e Carlo Scasserra, Domenico Paterno, e Giuseppe Cavicchia; giudici a contratti, Crescenzo de Iacobellis e Lucantonio Girardi; speziali di medicina, Alberto di Marco, Cosmo Gismondi, Bernardo Panno e Pasquale Villano. Tre fratelli della famiglia Trutta esercitavano uffici in Napoli, cioè il dott. Giacomo Trutta, qual Segretario della Città di Napoli, Girolamo, Maestro di Cerimonie, ed il dott. Gio. Antonio, Agente della Soprintendenza del duca d’Andria. Il nob. Luigi Pertugio era Usciere di Camera della Regina; il mag. Giuseppe de Giorgio, Ufficiale della compagnia degli Invalidi; D. Pasquale del Giudice, Capocaccia del Re. Nel ceto ecclesiastico, oltre ventinove sacerdoti e canonici, si trova il Can. Decano D. Nicola Occhibove, vicario generale della diocesi di Alife, il Can. Ignazio de Benedictis, Primicerio della Cattedrale, e quattordici clerici, ed inoltre due monaci cisterciensi ed un monato di S. Pietro d’Alcantara, figlioli di Don Pasquale Potenza. E tenevano uffici in Piedimonte, Marcellino Barbato, esattore delle gabelle dell’università; Abramo Castaldo, esattore della molitura della farina; il mag. Nicola Iasimone, Credenziero del Purgolo della casa Laurenzana; Sisto Vetere, Credenziero delle Valchiere del Duca; il mag. Francesco Fatto, Segretario dello stesso Duca; Ambrogio Buontempo, giurato dell’Università. Vi erano inoltre ventidue studenti alle lettere, e tre donzelle educande in Monastero. Nonché 5 soldati, un paggio in Napoli, un sagrestano, 8 fondachieri, 44 servi e 4 nutrici. Le famiglie abitanti avevano i seguenti cognomi: Dell’Abbondanza, d’Agnese, Albanese, Altieri, Amato, d’Ambrosa, d’Amico, Amodio, d’Amore, Amoroso, d’Andrea, de Angelillis, de Angelis, dell’Anno, Antidoto, Antonellis, Aperto, d’Aprile, d’Ariesto, Aucella, Auriemma, Azzillo;
di Baia, Barbato,
Barra, Battiloro, de Benedictis, Benevenia, Bianchino, Bianco, de Biase,
Bisceglie, Boggia, Brando, Bravo, Broccolo, Bruno, Bucci, Buontempo, Burgo;
Chiazza, Campagna,
Campanile, Campochiaro, Cancello, Candelarese, Capriata, di Caprio, Carancio,
Carbone, Cardillo, di Carluccio, Caropreso, Carpentino, Carrello Carullo,
Caso, Cassella, Castelli, Cavicchia, Berillo, di Cesa, Chiarizia, Cianci,
Ciarlo, Cibalerio, Ciccarelli, Cimaglia, Cimminelli, Ciollo, Cipullo,
Cittadino, Civitella, Civitillo, Codone, Colalillo, Coletta, Colombiano,
Colucci, Conca, Confreda, Consola, Contenta, Coppola, Corona, Costantino,
Crispino, Cristallino, di Crosta, Curtopasso;
di Dio, di Domizio,
Donia;
Fantauccio, Farelli,
Farina, Fasulo, Fatone, Fatti, Federico, de Felice, Feola, Ferraioli, di
Ferrante, Ferraro, Terrazza, Ferretto, Fidanza, di Filio, de Filippis,
Fioravanti, Fisco, Fontana, Fontanella, di Fonzo, Fossa, di Francesco, di
Franco, Francomacaro, Frascarelli, di Fundo, di Fusco;
Gabriele, Gagliardo,
Galante, Gambella, Garofano, Gaudello, Gaudino, Gaudio, Gautiero, Giammarco,
Gianfrancesco, Giordano, di Giorgio, Girardi, Gismondi, Giugno, Giunti;
de Iacobellis, Iafusco,
Iameo, Iannella, Iannitelli, Iannitto, Iannotta, Iannuccio, Iaquinto,
Iasalvatore, Iasimone, dell’Imperatore, di Iorio, Izzo;
Lamberti, Larduccio,
Leone, Leggiero, di Lello, di Leo, Liardo, de Lisi, Lobrico, Loffreda,
Lombardo, di Lorenzo, Losco, de Luca, Luciano, di Luise, di Lullo, Luzzi;
Macaro, Macolino,
Madonna, de Magistris, Maioccolo, Mancino, Manzo, Mannone, Marano, Marchetti,
di Marco, Mariano, Martello, Martino, Martone, Mastrangelo, Mastrolorenzo,
Mastronardo, di Matteo, Mazza, Mazzucco;
Natalizio, Navarro,
Nelli, Nigro, Noratelli, di Notaro;
Occhibove, d’Onofrio,
d’Orlando, d’Orsi;
Pacella, Pagano,
Palmieri, Palombo, Panarello, Panella, Pannone, di Paolo, Paparo, de
Parrillis, Pascale, Pasquale, Paterno, Pece, Penna, Pepe, Per azza,
Perfetto, Perillo, Perrino, Perrone, Pernotti, Pertugio, Petruccio,
Piccarelli, Pierleone, Pietrangelillo, Pietrosimone, Pimpinella, Pisa, Pitò,
Pittarelli, Pizzella, Pizzuto, Pollastrino, Porcello, Potenza, Pragna,
Panno, Pugliese;
Rabbino, Raguccio,
Raiano, Rapa, di Renzo, Reverazzo, Ricciardi, Riccio, Riccitelli, Rinaldo,
della Ripa, Risella, Ristoro, del Roi, Romano, Rosato, Roscietti, Rossi,
Rozzo, Ruggiero, Russo;
Sacchetti, Salomino,
Salomone, Sansiviero, Santagata, Santangelo, Santillo, Santino, de Santis,
del Santo, Santomassimo, Sapio, di Scania, Scappaticcio, Scasserra,
Schiacchi, Sconcia, Sepe, Semola, Serra, Signorelli, de Simone, Simonelli,
Simonetta, Sponziano, Sposato, di Stefano, Stellato;
Taglione, Tamburo,
Tancredone, Tartaglia, Tardone, Tedesco, Tella, Tennerello, Teodoro, Testa,
di Tommaso, della Torre, Truccio, Trutta, della Tuzia;
d’Urso, Ussiello;
Valente, Valentino,
Vastano, del Vecchio, Venditto, Vertolla, Vetere, della Villa, Villano, di
Vinco, de Vito, de Vizio;
Zampino, Zarro,
Zazzarino, Zicchinelli, Zucchi, del Zullo. Fiorivano nel 1754 in Piedimonte l’arte della lana e l’arte dei panni, erette certamente a corporazioni, una volta che si trovano i nomi dei Consoli e la notizia del bollo, che costoro apponevano ai panni fabbricati nel lanificio. Non trovo però gli statuti di tali corporazioni. I consoli dell’arte della lana erano nel 1754 i mag. Francesco de Angelis e Marcellino Iannitelli; e console dell’arte dei panni il mag. Pietro Ant. de Stefano. Erano nell’arte 181 cardalani, 43 azzimatori, 30 valcaturari, uno stracciapezze, 43 tessitori di panni e 13 tintori, in complesso 311 individui. Un mercante di lana e 22 mercanti di panni smerciavano la produzione. All’agricoltura ed all’industria armentizia erano addetti 4 fattori di campagna, 27 campieri, 19 bovari, 15 partori e 5 caprai, mentre 358 bracciali coadiuvavano sia i lavori agricoli, che quelli industriali. Le arti e mestieri nella città erano esercitate così: 52 calzolai, 2 doratori, un pittore, 4 fucilieri o scoppettieri, 27 sarti, 17 falegnami, 2 ciabattini, 12 barbieri, 5 ferrari, 2 forgiari, 2 artiglieri, 21 muratori, 5 maniscalchi. E poi 14 salumai e pizzicaroli, 3 molinari, 26 ortolani, 10 carbonari, 4 panettieri, 2 maccheronai, 5 macellai, 7 conciatori di pelle, 3 cantinieri, 3 verdumari, 2 bottegai, 2 fontanari, un cuoco, un venditore di vetri, 4 stallieri, 3 vetturini, 2 apparatori, 2 venditori di stoviglie, 3 dolcieri, 10 vaticali, 5 mulattieri, 15 legnaiuoli, un fuochista, un venditore di tabacchi, 5 tiratori, e 3 cocchieri. Un individuo si trovava in galera e tre vivevano di elemosine.
A capo del monastero dei Domenicani stava il Padre Lettore Raimondo Guerra, con 9 monaci, 6 studenti, 5 novizi, 5 conversi, ed uno speziale di medicina addetto alla pubblica farmacia del monastero, posta nello stesso edificio. Maestri agli studii P. D. Giuseppe Paterno e P. D. Anselmo Finiziano; baccelliere P. D. Marcantonio Angelillo; lettore di Filosofia P. D. Giacinto Cilento. Fra i novizi, Ottavio Chiarizia, più tardi stimato scrittore di politica ecclesiastica. Favorito da cospicui legati di parecchi individui nella casa Gaetani, di Camilla Revertera, Cecilia Acquaviva, Cassandra e Diana di Capua, e ricco per territori, case e capitali, questo monastero dei Domenicani era il più importante fra quelli di Piedimonte. Priore del monastero di S. M. del Carmine, dell’omonimo Ordine, era il P. F. Pietro Fiorillo, con 8 monaci, 4 laici ed un garzone. I monaci erano quasi tutti di Piedimonte, cioè il P. Maestro F. Giuseppe Laurenza, P. Giuseppe Paterno, P. Angelo Branno, P. Clemente Onoratelli e P. Alberto Laurenza. La Casa della Congregazione dei PP. Chierici Regolari Minori – più tardi, nel 1777, soppressa con quella di Alife, – era retta dal P. Preposito D. Francesco Marziale, con 6 monaci, 3 conversi e 2 garzoni; con territori e capitali, tra cui duc. 2111 sull’università di Piedimonte e parecchi legati di messe. Tra queste, le 75 messe disposte da D. Aurora Sanseverino, duchessa di Laurenzana, sulle rendite del territorio detto la Masseria della Signora. In ultimo, era Abate del monastero di S. M. di Ogni Grazia dei PP. Celestini, D. Francesco M. Pisano, con 4 monaci e 3 laici. Anche fornito di beni e capitali, fra cui quello di duc. 2250 sull’università di Piedimonte, teneva il peso di n. 2258 messe quotidiane perpetue, per pie disposizioni[6]. Circa gli altri surriferiti luoghi pii, è notevole che la chiesa di S. Rocco, grancia della R. Chiesa di S. Maria Occorrevole, era obbligata, nel martedì dopo Pentecoste, a recarsi processionalmente con i suoi cappellani e con la confraternita della Morte nella suddetta R. Chiesa e presentare ai Governatori pro tempore una candela del peso di una libbra in segno di tributo. Si trova che la stessa chiesa corrispondeva ai PP. Scalzi di S. Francesco annui duc. 230 di elemosina, 8 staia di olio, 15 tomoli di grano e di formaggio. Somministrava cere e torcette all’altare di S. M. Occorrevole ed alle chiese di S. Sebastiano e di S. Giacomo; elargiva due maritagli di duc. 24 per legato di Giacomo Pironti, distribuiti dal duca, un maritaggio di duc. 18, nella chiesa, ed un altro simile di duc. 18 in S. Sebastiano. Si trova pure che le rendite dei capitali e dei beni della cappella di S. Marcellino protettore, in S. M. Maggiore, erano spese tutte per messe e servizi di culto; che la chiesa di S. M. di Costantinopoli dava un maritaggio di duc. 15, nella festività della titolare; che la cappella laicale dell’Annunziata, oltre l’Ospedale, in cui ricoverava sei malati, pagando al medico l’onorario di carlini 36 ed al chirurgo quello di carlini 15, e celebrandovi gratis le messe i PP. Carmelitani, concedeva in ogni anno due maritagli di duc. 15 ognuno; che un altro maritaggio di duc. 10 era dato nella festa del Rosario dall’omonima cappella nella chiesa dei Domenicani; che la cappella del Sacramento in S. M. Maggiore, per disposizione di Filippo Mastrodomenico, elargiva altri due maritagli di duc. 12 all’anno. Troppo poca spesa di pubblica beneficenza in verità, da parte dei numerosi enti di culto che nel 1754 fiorivano in Piedimonte e che assorbivano, puossi dire, gran parte della ricchezza terriera e immobiliare della contrada.
I terreni privati, ossia tomoli 2.895,05 (ett. 933,77,18) erano costituiti: da pastini o cese arbustate e vitate con olivi, tomoli 1.921 (ett. 619,52,26); aratori, tomoli 311,06 (ett. 100,45,88); cese demaniali, tom. 261,01 (ett. 84,19,94); querceti, to,. 203 (ett. 65,46,75); orti e cannavine, tom. 12, 06 (ett. 4,03,14); vigneti, tom. 33,10 (ett. 10,91,08); ed oliveti, tom. 152, 06 (ett. 49, 18,13). Vi sono compresi tom. 10 (ett. 3,22,50) di cese arbustate e vitate; altri tom. 10 (ett. 3,22,50) di aratori; e tom. 1 (are 32,25) di oliveto, posseduti da bonatenenti forestieri, ed iscritti nell’onciario. I suddetti Enti di culto erano proprietari di tom. 125,04 (ett. 40,41,98) di pastini e cese arbustate e vitate; tom. 781,11 (ett. 252,16,80) di terreni aratori; tom. 23 (ett. 7,41,45) di orti e cannavine; tom. 21 (ett. 6,77,25) di oliveti; tom. 8,06 (ett. 2,74,13) di vigneti; tom. 221 (ett. 71,43,38) di aratorio boscoso; e tom. 123 (ett. 39,66,76) di querceti. Figurano come maggiori proprietari di cese o pastini arbustati, il monastero dei PP. Celestini, con tom. 32; quello di S. Salvatore, con tom. 29,04; e l’altro del Carmine, con tom. 22. Erano invece maggiori possessori di terreni aratori, la collegiata di S. M. Maggiore, con tom. 367 e quella del’Annuziata, con tom. 116; il monastero di S. Salvatore, con tom. 85,03; di S. Domenico, con tom. 78. La cappella laicale di S. M. Occorrevole possedeva tom. 216,06 di terreni aratori boscosi. La casa Laurenzana possedeva, con la qualità burgensatica, tom. 46 (ettari 14,83,50) di cese arbustate e vitate; tom. 49,06 (ett. 15,96,38) di oliveti; tom. 8,06 (ett. 2,74,12) di terreni aratori; e tom. 9,06(ett. 3,06,38) di terreni boscosi con querce. Da ciò risulta che il territorio di Piedimonte (tom. 4.313) era posseduto per 2/3 dai cittadini (tom. 2.895) e per 1/3 dagli Enti di culto e da Laurenzana (tom. 1.418); e che i detti Enti possedevano quasi la metà (tom. 1.304) di quanto alla loro volta erano proprietari i cittadini (tom.2.895). Siccome più innanzi si è visto che soltanto 332 famiglie nel 1754 possedevano terreni, così, facendo il conto del frazionamento della proprietà terriera in mano alle suddette famiglie e sempre sugli allibramenti dell’Onciario, riusulta che possedevano fino a due tomoli di terreno (are 64,50), famiglie n. 84; da 2 a 3 tomoli, famiglie n. 33; da 3 a 5 tomoli, famiglie n. 83; da 5 a 10 tomoli, famiglie n. 70; da 10 a 15 tomoli, famiglie n. 20; da 15 a 20 tomoli, famiglie n. 13; da 20 a 25 tomoli, famiglie n. 11; da 25 a 30 tomoli, famiglie n. 4; da 30 a 40 tomoli, famiglie n. 8; da 40 a 50 tomoli, nessuno; da 50 a 60 tomoli, famiglie n. 1; da 60 a 90 tomoli, nessuno; da 90 a 100 tomoli, famiglie n. 3. Il dott. Filippo de Benedictis di anni 84, era il maggior proprietario di terreni in Piedimonte con tomoli 127; seguivano il dott. Vincenzo d’Agnese con tom. 110, di cui tom. 64 del querceto Speziali; D. Sebastiano Gambella, nobile vivente, con tom. 96; D. Antonio Confreda, anche nobile vivente, con tom. 93 e D. Nunzio Onoratelli, con tom. 91. Fiorivano le industrie armentizie. Nel 1754 si tenevano 9225 pecore,delle quali 2795 di Laurenzana, 2000 di D. Gio. Antonio d’Amore, 1480 della chiesa di S. M. di Costantinopoli, 1200 di D. Vincenzo Candelarese e 989 della chiesa di S. M. Occorrevole. Le capre erano 3220, delle quali 470 di Laurenzana, 400 del detto d’Amore e 334 di S. M. di Costantinopoli. Bovi n. 289, dei quali 120 di Laurenzana; vacche n. 420, delle quali 40 dello stesso d’Amore, 56 di S. M. Occorrevole e 32 di S. M. di Costantinopoli; n. 40 bufale di Laurenzana; n. 150 cavalli e giumente, di cui 40 di Laurenzana; n. 130 asini, e n. 187 maiali. Tenevano cavalli da sella e per esclusivo uso di carrozza, il dott. Filippo de Benedictis, il dott. Francesco Pollastrino, D. Gio. Antonio d’Amore, D. Giuseppe Andrea Greco, D. Marcellino d’Orsi, D. Marcandrea Ciminelli, D. Pasquale del Giudice, il dott. Vincenzo d’Agnese, D. Marzio Trutta e D. Sebastiano Gambella. La casa ducale teneva 12 cavalli da sella e da tiro. Altro elemento della ricchezza è fornito dal movimento dei capitali. Nel 1754 i crediti dei cittadini di Piedimonte sommavano a ducati 35203 ½ , pari a Lire 149614,88; quelli dei trentadue Enti di culto ascendevano all’ingente cifra, in rapporto ai tempi, di duc. 104485, pari a L. 444061,25. Possedevano maggiori capitali il monastero di S. Salvatore (duc. 19072), quello di S. Benedetto (duc. 15870), la chiesa di S. M. Occorrevole (duc. 12073). Seguivano il convento del Carmine (duc. 8684) e la Collegiata di S. M. Maggiore (duc. 6023); i capitali degli altri Enti oscillavano fra i duc. 4888 (Monte delle Sorelle del Rosario), e i duc. 1088 (Cappella del Rosario); dodici Enti avevano rispettivamente capitali inferiori a duc. 500. E gli stessi cittadini nel industrie tenevano impiegati duc. 26918 di capitali (L. 123401,50), così distribuiti: industria della lana, duc. 10310; fondaci, duc. 4382; pizzicherie, duc. 566; negozi di grano e vino, duc. 250; negozio suini, duc. 200; macelleria, duc. 40; farmacie, duc. 360; industria delle pelli, duc. 300; panetterie,duc. 140; negozi di ferri e polvere da sparo, duc. 50; spezierie manuali, duc. 20; negozio di verdure, duc. 300. Anni appresso, il solo D. Gioacchino Boiani teneva impiegato nell’industria della lana un capitale di duc. 20 mila.
Dal Mercato l’abitato di Piedimonte proseguiva per il Carmine, e per il Ponte del Carmine, a Porta Vallata ed all’omonimo quartiere; saliva per Ficolandina o la Dottrina Cristiana, ai Celestini, ed oltrepassata la Crocevia del Vallone, da una parte proseguiva per l’Ospedale, per l’Annunziata, al Seminario e Sotto il Seminario o Campo, e dall’altra parte girava per il Trigio di Farfazio e Fontana ed arrivava al Vicinato. Dall’Annunziata, inoltre, per Sotto il Campanile, per Cetrangolo, raggiungeva il Pontone del Vicinato, raggruppandosi, a sinistra, a Paterno ed al Trigio di Paterno, e continuando per Sotto la Chiesa di S. Filippo e per S. Filippo, fino a Capo Vallata, ove a ponente, terminava, come tuttora termina, il detto abitato della città. La borgata Sepicciano teneva talune proprie località, ma il punto più notevole era Avanti la Parrocchia di S. Marcello. Così trovasi costituito Piedimonte nel 1754, e salvo più recenti costruzioni al Mercato ed un successivo allacciamento di case, fra l’una e l’altra contrada, che risultano divise, puossi dire che Piedimonte attuale poco diversifichi da come era nella metà del secolo XVIII. Le case palaziate e le abitazioni delle famiglie cospicue, più numerose nelle contrade di antichi raggruppamenti, non mancano nelle altre località. A Capo la terra o S. Giovanni la casa di Francesco del Santo, padre di Paolo, da più anni in servizio della duchessa di Laurenzana. A Piazzetta le case ed i palazzi del mag. Francesco dell’Imperadore, Giuseppe Simonetta, Giuseppe Albanese, Nicola Bucci, Giuseppe di Giorgio, Domenico di Domizio e Luigi Pertugio. A S. Cristoforo quelli del mag. Francesco de Angelis, del sig. Giuseppe Clavellis, dei baroni di Alvignano e privilegiato per antica concessione aragonese. Ed alla Porta del Rivo quello del mag. Francesco Perrotti. A Piazza Cavallara la casa, con giardino di delizie, del dott. Antonio Barra. Alla Crocevia i palazzi del mag. Antonio Perrino, del medico Francesco Greco, del dott. Filippo de Benedictis, del medico Giacomo Iannitelli, del dott. Marcellino Ciccarelli, del mag. Pasquale della Torre, del dott. Pasquale de Antonellis, nobile vivente, della mag. Cassandra Buontempo, vedova di Ercole Pagano. Quivi il palazzo, in confine della chiesa di S. Biagio, dato in enfiteusi dai PP. Domenicani al mag. Dott. Marcellino de Marco e fratelli e poscia passato a D. Gioacchino Boiano. A S. Marcellino i palazzi dei nob. Antonio e Domenico Confreda; a S. Nicola, vicino S. Cristofaro, quello del nob. Cosmo de Giorgio. A S. Domenico o Piazza S. Domenico l’altro del dott. Vincenzo d’Agnese, che vi abitava con la consorte e figliuoli, tra i quali Ercole, allora di anni 9, martire della libertà nel 1799. Ed alle Coppetelle gli altri dei nob. Giuseppe Gambella e Marcellino de Clavellis e del dott. Tiburzio de Parrillis. A S. Rocco la casa del mag. Pietrantonio de Stefano, console dell’arte dei panni. Alla Petrara i palazzi del mag. Bernardo Meola e del mag. Giacomo Mazza, nobili viventi. A S. Sebastiano le case del mag. Francesco Fatti, segretario del Duca, del chirurgo Stefano Buontempo e del mercante Pasquale de Marco ed il palazzo del mag. Gio. Antonio d’Amore. Al Molino il palazzo del mag. Pasquale Potenza, nobile vivente. A S. Antonio quello di D. Michelangelo Ragucci. Alla Ficolandina il palazzo del dott. Giuseppe Paterno, nob. vivente e le case dei mag. Bernardo de Iacobellis e Michelangelo Pasquale; dirimpetto i Celestini il palazzo di D. Pasquale del Giudice, guardiacaccia del Re. Al Trigio di Farfazio il palazzo del nob. Vincenzo Pitò ed al Vicinato quelli del mag. Costantino Paterno e del dott. Marzio Trutta. Al Pontone del Vallone l’altro del mag. Vincenzo Candelarese; a Paterno le case del not. Domenico Paterno, ed al Trigio di Paterno il palazzo del dott. Giuseppe Vertollo. Alla Cortiglia longa la casa del mag. Giuseppe Andrea Greco; alla Cortiglia del Prota quella del mag. Pasquale Costantini; sotto l’Annunziata l’altra del mag. Giuseppe Cavicchia a Capo Vallata quella del mag. Marco Cavicchia. Nella località Arbore i palazzi del dott. Domenico Noratelli e del mag. Nunzio Noratelli. Avanti la Parrocchia di Sepicciano quello del nobile Sebastiano Gambella.
E poi, le tiratoie da spandere panni, presso il Mercato, della famiglia d’Angese e del dott. Paterno; la tintoria di D. Nunzio Noratelli al Ponte dell’Ossa; le spezierie di medicina della cappella di A. G. P. fittata a D. Cosimo Gismondi, del monastero di S. Domenico, fittata a D. Simone Fusco; l’altra sotto il convento dei PP. Carmelitani, fittata a D. Carlo Semola. Fra tant’altro, che non riesce notare, rilevo che il suddetto monastero di S. Domenico possedeva una casa terranea sotto la cappella del palazzo vescovile, a S. Domenico, “luogo detto la Pietra del Pesce, che serve per comodo delli pescivendoli”, i quali, per il relativo uso, corrispondevano al Monastero un rotolo di pesce a soma.
Certamente da quei raffronti risulterà che Piedimonte ha seguito la via di civile progresso che i tempi nuovi han determinata e resa necessaria. Ha saputo così essere degna dei tempi moderni, senza dimenticare le sue tradizioni, senza venir meno al culto mobilissimo dei suoi antichi ricordi.
|
|